Dunyazad è un nome-simbolo, Dunyazad è la figlia-angelo, Dunyazad è un romanzo, Dunyazad è il punto di svolta nella vita di una madre, di una scrittrice, Dunyazad è la salvezza, la presa di coscienza della vita nonostante la perdita.
‘Scrivere Dunyazad è un atto di coraggio’ afferma Roger Allen nella postfazione all’edizione inglese del romanzo (London: Saqi Books, 2000), un atto solitario, come è solo il coraggio di una madre di fronte all’ordalia più dura: la perdita di un figlio.
Unico rimedio contro l’amarezza divorante del lutto e dei sensi di colpa è raccontare-scrivere, per mantenere vivo il ricordo ma, allo stesso tempo, per liberarsi dallo strazio del dolore. Una “cura” universale, come universali sono oramai le Mille e una notte, caposaldo della tradizione letteraria mediorentale, a cui allude con delicatezza il nome-titolo Dunyazad, omaggiando più il genio femminile del narrare che i facili echi esotici prediletti dal gusto occidentale.
La narrazione autobiografica pone l’accento su una giovane coppia (l’autrice e suo marito) costretta a misurarsi con la sofferenza. L’intensa introspezione mette spaventosamente a nudo le ferite dell’anima e del corpo. È in questo modo, ossia attraverso l’indagine spietata dei ‘buchi neri’ dell’io, che la storia di Dunyazad non appartiene più soltanto alla sua famiglia o alla società egiziana (tenuta distante, sullo sfondo), ma riesce a conquistare i lettori di ogni latitudine. L’introspezione e l’universalismo sono infatti i segni distintivi che, secondo la Telmissany, caratterizzano la nuova generazione di scrittori egiziani (a cui lei stessa appartiene), una generazione disillusa dalle ideologie e dalla realtà nazionale, che proprio per questo decide di “scrivere ai margini della storia” (cfr. Telmissany M., “Scrivere ai margini della storia. Chi sono i giovani autori” in L’Indice dei libri del mese n. 5, maggio 2009, p. 23).
L’estrema economia di mezzi verbali, segno di pudore ed eleganza, rende ancora più incisive le sensazioni, i sogni e le azioni dei protagonisti, come se il dolore stillasse in parole. Un dolore che, all’inizio, sembra inesauribile e avvelena ogni istante, ma che, pian piano, si placa cullato dal dolce rumore della vita, che, nonostante tutto, riprende. E il lento ritorno all’intimità quotidiana s’imprime vivido nell’immaginazione del lettore, grazie al ritmo e all’intensità visiva dello stile cinematografico, che fa scorrere i capitoli del romanzo come fossero fotografie o sequenze di un film.
“Sono capace di ribellarmi, di infischiarmene, di scegliere, di partecipare a decisioni cruciali senza versare una lacrima né battere ciglio. Sono capace di trattenere le lacrime agli angoli degli occhi quando, sul calendario, mi imbatto inaspettatamente nel numero quindici oppure in un lunedì. Senza prepararmi in anticipo, sono capace di ricevere il ricordo tra i seni come un pugnale aguzzo. Finalmente sono capace di annoiarmi. Allora tutto è lecito, tutto è veramente senza importanza.”
La severità e la tenerezza, magistralmente calibrate dall’autrice e, forse, indissolubilmente intrecciate nell’animo di una madre, sono le lenti attraverso le quali viene presentata la complessità delle relazioni familiari, viene sdoganato il tabù del sesso, vengono messe a nudo le debolezze personali, con una consapevolezza lucida e disarmante che appartiene soltanto a poche voci arabe femminili.
Dunyazad
di May Telmissany (trad. di Ramona Ciucani, Macerata: Ev, 2010)