Scrivere vuol dire arrivare al buffet

Da Marcofre

Dove voglio andare a parare col titolo di questo post: Scrivere vuol dire arrivare al buffet?

Sei a una festa, e hai un po’ di fame. Sai che il buffet è ottimo e abbondante, ma è in fondo alla sala e nel mezzo, un mucchio di persone. È inevitabile passare attraverso i campanelli di chi chiacchiera con le paste o il bicchiere in mano, e lo stomaco già pieno; tu però non devi perderti per strada, ma arrivare a mettere le mani sul buffet. Prima che sia spazzolato via.

Invece, ti fai accalappiare dalla conversazione: ritrovi il vecchio amico. Trovi interessante la ragazza in minigonna. C’è quel tipo importante che è meglio conoscere. Accanto, una scollatura che strapiomba.
Il tempo passa, e al buffet non resteranno che le briciole.

Lo scrittore esordiente (ma anche quello navigato perché scrivere è un apprendistato che dura tutta la vita), lascia troppa libertà alla mano; si attarda invece di arrivare al buffet. Il che non è sempre male, intendiamoci. I guai si presentano quando manca la sorveglianza (o dovrei scrivere disciplina?), e la storia si perde dietro dettagli inutili, o prematuri.

Chi legge questo blog sa che in passato ho affermato l’importanza dei dettagli nella narrazione: non ho cambiato idea. Si tratta di elementi cardinali in una storia, grande o piccola che sia. Ma c’è un tempo per ogni cosa, anche per i dettagli.
Ricorda: prima il buffet, poi la conversazione con gli altri partecipanti alla festa.

Tradotto in italiano: illustra al lettore il premio, indica la posta in palio, e lui accetterà di investire un po’ del suo tempo nella lettura della tua storia. È lo stesso principio per cui si dice (e lo afferma qualunque scuola di scrittura seria): esponi il fatto, e poi spiegalo. Vale a dire: vai al buffet, e poi chiacchiera.

Un esempio autorevole? Eccolo:

Quando avevo dieci anni, avevo paura di mia sorella Megan.

È tratto da “On writing” di Stephen King (pagina 127). Il buffet, e poi la conoscenza delle persone invitate alla festa: la spiegazione del perché di quella paura. King è troppo popolare per essere un valido esempio? Lo era pure Dickens, che infatti è considerato un classico. Un Nobel può andare bene?

Il giorno che l’avrebbero ucciso, Santiago Nasar si alzò alle 5,30 del mattino per andare ad aspettare il bastimento con cui arrivava il vescovo.

Gabriel Garcia Marquez e il suo  ”Cronaca di una morte annunciata”. Buffet, e poi un centinaio di pagine di conversazione per spiegare quella morte.
Adesso provo a concludere.

Non solo sono inutili le troppe parole (quello sempre, giusto?). Devi imparare a essere abile nel loro utilizzo; e l’abilità si ottiene con molto esercizio. Molto.
Soprattutto con una lettura attenta della scrittura degli autori contemporanei. È una faccenda che sto iniziando ad affrontare solo ora, in realtà.

Se incontro un paragrafo che fila (non sempre accade, attenzione, anche Tolstoj scivola), torno indietro e lo rileggo. Osservo le parole, il loro suono, persino i segni di interpunzione, ricordando il lavoro del traduttore (sono abbastanza esterofilo, come si sa). E i pezzi migliori sono quelli che si precipitano al buffet, e poi si attardano con gli altri ospiti della festa.

Una domanda sorge spontanea: sono utili i classici? Sì sempre, però ricordiamo che la letteratura evolve, come la società. E alcuni modi di scrivere che andavano bene nell’Ottocento, adesso sono superati; ecco perché occorre leggere Raymond Carver, Flannery O’Connor, Cormac McCarthy…

Dobbiamo parlare a questa realtà, a questo mondo. Una volta non c’erano buffet, ma balli in sontuose dimore moscovite. Una volta, appunto.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :