Marco, un ragazzino particolare
C’è un tipo di studente che tutti gli insegnanti osannano e temono allo stesso tempo: si tratta di quei ragazzi che leggono molto a casa, che si informano, che navigano in internet, che comprano Focus. È stimolante parlare con loro, e possiamo pensare che in fondo l’intelletto umano non è da darsi per spacciato; ma un po’ di fifa di dire qualche solenne minchiata c’è sempre. Perché questi studenti ti scoprono subito, e ti inchiodano. Ti fanno la domanda a cui non sai rispondere. Tu puoi provare a girarci attorno, provare a smenarla: ma mentre gli altri compagni annuiranno soddisfatti di fronte al tuo patetico tentativo di risposta, lui (o lei, più spesso lei) ti guarderà di sbieco, denunciando di averti scoperto. Se si prende bene, la faccenda è anche divertente.Marco è un tipo così, solo che in più è anche simpatico. Un giorno mi stavo dilettando in una dotta discussione geografica sulle fasce climatiche e sulla loro influenza per l’uomo; ad un certo punto, per esemplificare, me ne esco con un “tanto per dire, è ovvio che gli uomini preferiscono vivere negli Stati Uniti rispetto all’Alaska!”. Marco alza la mano. “Dimmi, Marco.”, “no beh, veramente, l’Alaska fa parte degli Stati Uniti.”Di fronte ad una lasagna nei denti di questo tipo, per mantenere la dignità, non resta che dargli ragione e riderci su. Magari pensando a tutte le interessanti discussioni sul rapporto tra fantasy e romanzo d’avventura, sulla vita dei romani, su romanzi di cui io neppure conosco il titolo.Per farla breve: Marco ha quindici anni e quando fa un tema in classe scrive così.
Una giornata “normale”
Mi svegliai normalmente quella mattina, ossia scocciato per due motivi: primo perché Interiezione si era messa nuovamente ad urlare per la strada, secondo perché detestavo il termine “mattina”. Odiavo tutti i termini, tutto ciò che era usato per indicare una qualsiasi cosa, per specificarla dal resto. Odiavo i nomi, e perché? Perché chi li dava era un antipatico, ecco perché.Era tutto cominciato in un momento in cui non conoscevo neanche il significato della parola “tempo”, ma quello di “antipatia” lo conoscevo forte e chiaro. Questo perché la prima cosa che ricordo ancora oggi di tutta la mia vita è l’aspetto di Nome. E mi era subito risultato odioso.Nome era esattamente com’è adesso: dodici braccia che non facevano che indicare le cose più disparate, quattro facce (una per ogni lato della testa) con le quali parlava all’unisono e osservava ogni cosa attorno a lui, e soprattutto, una creatività incredibile che mi faceva rodere d’invidia.Ricordo ancora che mi puntò contro una delle sue dita sottili urlandomi: “Articolo!”. Lo stesso fece con gli altri sette che erano attorno a me: Aggettivo, Pronome, Verbo, Avverbio, Congiunzione, Preposizione e Interiezione. Più tardi imparammo a comunicare fra di noi e decidemmo di organizzarci, o meglio, Nome decise di organizzare noi come gli andava più a genio, cosa che non mi piacque per nulla, visto che pretendeva che io facessi tutti i lavori più ingrati: tagliargli le unghie dei piedi, andare a buttare da qualche parte la roba che gli altri avanzavano dopo i pasti, pulire le strade e le case di tutti. Mi sentivo un servo, uno schiavo, l’ultimo anello di quella società del… beh, andiamo avanti!Comunque fosse, quella mattina io uscii di casa e trovai Interiezione che sbraitava davanti al mio muro. Era decisamente un giorno qualunque.“Fuori dai piedi!” urlai io in modo che comprendesse più rapidamente di un supercomputer inventato da Verbo. Con quella sua gigantesca bocca rotonda da sanguisuga, quei minuscoli occhietti rossi e quelle ancor più minuscole orecchie, era chiaro che non doveva essere proprio l’individuo più sveglio della nostra comunità.In quel momento, invece di andarsene, lei urlò nuovamente (e ancora più forte del solito per sfortuna dei miei poveri timpani) poi si rintanò nella sua casa, o meglio, nella sua casupola a forma di cupola che “io” avevo costruito evitando di mettere qualsiasi finestra in modo da non udire i prodotti delle sue permanenti crisi isteriche. Non è che abbia funzionato benissimo, ma non ho il coraggio di dire come faccio a saperlo.Cominciai a muovermi sulla strada che “io” avevo rifatto giusto ieri… e come notai immediatamente, era già piena di crepe. Che rabbia! Ma d’altronde, poiché vivevamo su una specie di isola bianca, quadrata e sottilissima che fluttuava in un cielo rosso il giorno e ferrigno la notte, attraversato da strane onde d’energia azzurrine, c’era sempre il rischio che una di esse ci colpisse, facendo tremare tutto e provocando danni che ovviamente toccava a “me” rimediare.Ma quella volta sarebbe stato diverso, completamente diverso. Ero stanco di fare il servo della gleba. Ora sarei andato dritto di filato da Nome e gli avrei detto tutto quello che pensavo di lui e che non avevo alcuna intenzione di continuare così per il resto della mia vita.Nell’impeto delle emozioni che mi erano venute su, accelerai il passo: pensavo che prima fossi arrivato prima mi sarei tolto quel peso, quindi, una volta raggiunta la casa di Nome, salii rapido le scale e spalancai la porta del suo ufficio. Entrando di corsa investii Pronome, il quale si trovava anche lui lì per chissà quale motivo.Ma ora cosa succedeva? Nome colpì Pronome con un pugno a un centimetro da me, poi sferrò un altro colpo, poi un’intera valanga. Io non capii finché Pronome non implorò pietà da terra, lasciando l’arma che teneva in mano.Fu allora che Nome mi disse, per la prima volta, delle parole veramente gentili: “Grazie Articolo! Senza il tuo intervento questo traditore mi avrebbe ucciso prendendo il mio posto. Credo proprio che farò un netto cambiamento nella mia linea di governo!”.Capii che quella non sarebbe stata una giornata normale. E mi piaceva.