Se il capo è una merda

Creato il 26 dicembre 2012 da Elenatorresani

Sabato sera, cena tra amici.
Domando a quello che qualche anno fa è andato a vivere a Berlino: “Professionalmente, torneresti mai in Italia?
Assolutamente no – mi risponde – nemmeno se la situazione del mercato fosse decente. A parte i ritmi lavorativi che ci sono qui, non potrei più sopportare l’atteggiamento di molti datori di lavoro, che sembra ti facciano un favore offrendoti un posto, come se fosse carità che in cambio merita eterna gratitudine o, addirittura, venerazione.
Nel corso della mia carriera professionale, ho sperimentato sulla mia pelle questo atteggiamento padronale nostrano, radicato soprattutto nella piccola imprenditoria locale che rappresenta l’ossatura della nostra economia. Un modo di “fare impresa” un po’ cafonal-popolare e paesano che tende ad identificare ancora il datore di lavoro come il “padrone”: una debolezza culturale dalla quale anche alcune realtà più grandi e strutturate non riescono a mantenersi immuni.
Argomento caldissimo, soprattutto in un momento in cui domanda e offerta del mercato del lavoro sono così prepotentemente sbilanciate in sfavore della seconda.

Come ho scritto diverse volte, non credo che il rispetto sia dovuto a prescindere: il rispetto è una faccenda che tutti si devono guadagnare sul campo, datori di lavoro compresi.
Molta della storia imprenditoriale recente del nostro paese ci insegna che non sempre a capo di uffici o aziende ci sono persone meritevoli: in alcuni casi incompetenti, in alcuni casi pure pezzi di merda.
E non limo il linguaggio: perché fare considerazioni sul “capo” non può sempre prescindere dalle considerazioni sull’”uomo” (parlo al maschile giusto perché le posizioni di responsabilità e potere in Italia sono quasi sempre ricoperte da uomini).
Capita che il capo sia molto competente e preparato professionalmente, ma che sia umanamente un cane (e in Italia ultimamente ne abbiamo viste delle belle sul codice etico di un certo tipo di management).


Il lavoro è una prestazione: nessuno deve dire grazie a nessuno, o forse entrambi se lo devono dire a vicenda. Si offrono tempo e competenza in cambio di denaro (in casi piuttosto rari in cambio si hanno anche formazione, speranza, crescita, gratificazione).
In questo rapporto di scambio (così come in generale e in assoluto) non esistono esseri umani di serie A e di serie B, non esiste una subordinazione umana qualitativa tra modelli 740 e modelli 101: quando qualcuno si comporta come se così fosse, si merita ben più di uno sputo in fronte.
Non esiste un rispetto dovuto a prescindere nei confronti di un capo: a parte un bonus iniziale accordato in attesa di conoscersi sul campo, a parte l’opportunità del caso e delle contingenze (che impone buona educazione a prescindere e necessità di pagare le bollette e il mutuo), un capo che vi tratta come delle merde non merita il vostro rispetto e – educazione e valutazione contingenti a parte – la dignità che vi spetta come lavoratori che fanno bene e seriamente il loro dovere non dovrebbe essere mai messa in secondo piano.
Se siete stati scelti per ricoprire una determinata posizione, significa che eravate i migliori: il rapporto umano e di scambio professionale è assolutamente paritario. Non avete debiti di nessun genere verso chi vi ha assunto: il vostro stipendio ve lo guadagnate onestamente ogni giorno, dedicando la maggior parte del tempo della vostra vita a far funzionare bene gli affari di qualcun altro (se così non fosse, allora siete voi a dover fare autocritica).
Esistono sempre due livelli di analisi e di relazione: quello professionale e quello umano. Entrambi devono essere bilanciati e corretti, ma nessuno deve qualcosa a prescindere, soprattutto il rispetto e la gratitudine.
Per quanto professionalmente valido e qualificato, un capo che ostenta una posizione arrogante dal punto di vista umano, o squalificante dal punto di vista lavorativo, che usa il potere come unico strumento per avere ragione o adotta ingiustamente altri comportamenti prevaricanti, non è un buon capo.
Figuriamoci se non è nemmeno professionalmente valido o qualificato.
Se uno è una merda, non si fa peccato a dirlo così come sta scritto.


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