Se le nostre parole diventano quotidiane

Da Femminileplurale

Oggi sulla prima pagina del quotidiano La Stampa, nella rubrica del vicedirettore Massimo Gramellini, compare la parola “femminismo“. L’intera rubrica è dedicata a questo tema.

Visto che desidero sostenere che questa sia una notizia positiva, devo premettere subito che alcune affermazioni di Gramellini sono o discutibili, o ingenue, o profondamente sbagliate. Per esempio: “Finché al mondo esisteranno donne mobbizzate, violate, ammazzate e in troppi Paesi segregate e infibulate, il femminismo avrà un senso” – quando è evidente che non è solo la violenza sulle donne che dà senso al femminismo, e meno che mai lo è solo questo tipo di violenza, quando ne esistono molte altre meno riconoscibili. Di più: per molte femministe, me compresa, è irritante il tono dell’articolo intero: per l’uso facilone della parola “femminile”, per le persone a cui sono state rivolte le domande (Michela addirittura afferma che il femminismo non c’è più), fino all’auspicio finale sulle donne salvatrici del genere umano… E per molte altre ragioni, che sono sicura potremmo individuare con chiarezza. Ma, tenendo presenti le critiche, credo dovremmo anche cominciare a riconoscere alcune vittorie rispetto al clima generale e generalista in cui viviamo. È un segno importante che sulla prima pagina di un quotidiano nazionale compaia la parola “femminismo” (nonostante sia contornata da pensierini così annacquati), ed è un segno importante che, a causa della discutibilissima e furbastra proposta di Bongiorno e Carfagna, sia stata per giorni in primo piano sull’home page di Repubblica la parola “femminicidio“ (per leggere una critica puntuale e informata, si veda questo bell’articolo di Luisa Betti su il manifesto). Ma la stessa Betti al Fem Blog Camp di Livorno aveva denunciato insieme a Barbara Spinelli la difficoltà che le giornaliste di GiULiA e non solo incontrano nelle redazioni per introdurre questa parola (qui il nostro report di quell’incontro).

Ora, uno dei grossi problemi del femminismo è che i nostri temi entrano nel dibattito pubblico solo dopo un lavaggio a varechina, che toglie loro radicalità e, anzi (dialetticamente), avvalla certe dosi di reazione. Però noi lavoriamo nel tempo («nei secoli», diceva Lea Melandri a Paestum) e perciò la lenta creazione di un clima culturale meno censorio rispetto alle nostre parole e ai nostri temi – seppur pressapochistico o, peggio, contenente alcuni elementi reazionari – è pur sempre preferibile alla censura totale. Alcuni nostri temi stanno entrando nel dibattito pubblico, obbligando tutti i media main stream a prendere una posizione – giusta o sbagliata che sia da questo punto di vista è secondario. Il punto è: sono temi che cominciano lentamente ad essere considerati di pubblico interesse e non eludibili. Il movimento femminista ovviamente non è qui, non si forma nelle prime pagine dei quotidiani. Ma sono passi che esso genera e che credo dovremmo imparare a riconoscere nei loro limiti come tali.

Perché? Certo non per fame di scorciatoie mediatiche, peraltro già percorse dalle sezioni più in vista del movimento, né per anteporre la visibilità ai contenuti. Ma per riconoscere, anche a noi stesse, che quando alcune parole acquistano carattere quotidiano, questo ci aiuta, e che in parte (la parte positiva) questo è pure merito nostro. Questo forse aiuterà a rendere meno lontane alcuni milioni di donne che dagli anni Settanta abbiamo perduto per strada. C’è ancora tanto bisogno di femminismo, e non dovremmo lasciare indietro nessuna. Teniamo presenti tutti gli elementi di critica verso i media generalisti, ma senza dimenticare che viviamo in un mondo che è già mediatico, e che con questo dobbiamo fare i conti, perfino – e non ci siamo abituate – quando questo può portare qualche vantaggio.


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