Di chi parlo e da che cosa si è salvato? Si è salvato solo lui dal disonore di essere un collaborazionista lasciando uccidere cittadini inermi,un gentiluomo Bulgaro che era vice-presidente della Camera dei deputati del Regno di Bulgaria, tra tutti gli uomini politici che ebbero il proprio paese occupato dai nazisti tra il ‘40 ed il ‘45. Durante la seconda guerra mondiale. Ed erano alleati.
Con ciò non intendo essere frainteso né privare del giusto merito di ognuno tutti quanti aiutarono altre persone di religione ebraica durante gli anni bui della persecuzione,ma voglio dire che solo in Bulgaria praticamente tutti i cinquantamila residenti Ebrei ebbero salva la vita,e grazie a lui.
Non ebbero altrettanta fortuna i rifugiati Ebrei fuggiti dai Balcani che avevano cercato scampo in Bulgaria perché gli altri politici del paese,Re compreso,o non capirono o finsero di non capire la portata della sorte riservata agli Ebrei da deportare in Polonia da parte dei nazisti, i quali stavano sempre sulle generali, per non destare maggiori sospetti, e vedersi sfuggire i condannati.
Mi è successo solo una volta di visitare un centro di raccolta,un campo di concentrazione,dove gli Ebrei venivano ammassati per poi essere deportati treno per treno ai lager del macello polacco.
Terezìn,in quella che è oggi la Repubblica Ceca,si trova a circa 60 km a nord di Praga,e la visitai quando ero a Berlino -Est per motivi di studio nel 1984,all’epoca,in cui esisteva ancora la guerra fredda.
Eravamo passati in due amici,l’altro era spagnolo ed insegnava architettura a Rennes in Francia e dopo avermi dato diverse lezioni visitando Praga,al rientro verso la Germania ci fermammo a Terezìn.
La cittadina venne evacuata dei propri abitanti dai tedeschi che fecero edificare un muro tutto attorno alle abitazioni,e l’adibirono a ghetto mentre arrivavano i treni con i deportati dai paesi limitrofi per essere raccolti e poi rispediti verso le camere a gas.
Passarono da Terezin circa 145 mila Ebrei dei quali 88mila furono poi trasferiti in Polonia,ne morirono in loco di maltrattamenti, fame e freddo altri 33 mila e scoppiò un’epidemia di tifo proprio quando l’Armata Rossa arrivò a liberare il campo,si salvarono in poco più di diecimila.
I nazisti avevano organizzato le cose in tal modo da presentare Terezìn come lager modello per le visite della Croce Rossa Internazionale, diedero modo di mettere in piedi l’orchestrina che suonava,i bambini che cantavano e studiavano, le camerette in ordine,c’erano artigiani che lavoravano, tutta messinscena per far vedere come gli Ebrei venissero trattati,e ne commissionarono addirittura un film da distribuire in giro ad un ebreo prigioniero cui promisero salva la vita,cosa che naturalmente poi non fecero,non volevano lasciare testimoni.
La Croce Rossa se pur diffidente venne tratta in inganno. Infatti lo era,un inganno.
Poco distante dal centro di Terezin si erge una fortezza dove morì di tubercolosi l’attentatore di Sarajevo del 1914,Gavrilo Princip. Negli anni della occupazione nazista divenne un ancor più triste edificio di tortura della Gestapo per i resistenti cechi.Non dimenticate che uno degli organizzatori della pianificazione nazista dello sterminio degli ebrei era stato Reinhard Heydrich,che divenne governatore della Boemia e viaggiando per disprezzo con l’auto scoperta,millantando una sicurezza che non possedeva, venne mitragliato dai partigiani locali ed ucciso.Nella fortezza c’è un po’ di tutto dell’orrore.
Vi passarono a turno 90mila persone di cui ne morirono 2600.Le foto presentano l’ingresso della fortezza,poi come veniva distribuito quel poco cibo,la sbarra dinanzi all’ingresso di Terezin con le guardie naziste,ed un disegno rappresentante il sovraffollamento umano nei dormitori,l’arrivo delle truppe sovietiche,la torretta con il filo spinato come la videro i Russi al loro arrivo con degli scampati,ed un’insegnante ceca con la classe che portano fiori sul cimitero posto nelle vicinanze al campo.
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Vi lascio ora un ricordo di Dimitar Peshev il politico bulgaro che è stato riconosciuto in Israele come un Giusto tra le nazioni.
Dimităr Josifov Pešev+
Kjustendil, (25 giugno 1894 – Sofia, 21 febbraio 1973) Bulgaria.
Nato da Kicka e Josif Pešev, Dimităr frequentò per due anni il liceo a Salonicco, dal 1910 fino allo scoppio delle guerre balcaniche. Questo fatto già evidenziava gli ottimi rapporti di “buon vicinato” tra ebrei e bulgari. Salonicco infatti era considerata la città “più ebrea” dei Balcani. Tornò nel settembre del 1912 a Kjustendil dove concluse gli studi liceali diplomandosi nel 1914. Seguendo le orme del padre, magistrato, intraprese gli studi di giurisprudenza, prestando giuramento nella sua città natale il 17 novembre del 1921. Lavorò come magistrato prima a Plovdiv e dopo a Sofia. Nel 1932 si svestì della toga per la più redditizia carriera di avvocato. Il 23 novembre 1935 accettò la proposta del primo ministro bulgaro Georgi Kjoseivanov di entrare come ministro della giustizia nel nuovo regime apartitico. Cercò di far approvare una legge che desse corso legale al matrimonio civile, attirandosi le malevolenze della Chiesa ortodossa e della Corona.
Pešev contro Boris III – L’affare Velčev .
Prima della formazione del governo Kjoseivanov, la Bulgaria aveva visto il susseguirsi di diversi colpi di stato, sia di matrice comunista che di estrema destra. Uno degli ultimi era stato abilmente diretto da Damjan Velčev. Dopo essere fuggito in Jugoslavia, Velčev era rientrato clandestinamente in patria per tentare una nuova scalata al potere, ma venne arrestato, giudicato dalla corte marziale e condannato alla pena capitale. Fu il ministro della difesa Lukov a chiedere una sentenza esemplare, spinto dalla necessità di liberarsi dell’ingerenza di militari troppo attivi politicamente. Pešev non diede molto peso alla campagna di discredito del suo collega nei confronti del condannato, ma l’esecuzione tecnica della sentenza era di competenza del ministero della giustizia, quindi Pešev iniziò ad interessarsi della faccenda. Capì che la sentenza emessa non nasceva da una decisione autonoma della magistratura, ma era frutto di un certo clima politico, della volontà di eliminare i nemici della monarchia.
Pešev, il salvatore degli ebrei di una nazione intera.
Pešev era un uomo che, come tanti, si era lasciato affascinare dagli esperimenti totalitari nell’Europa del nostro secolo. Era un democratico, ma si era illuso che un regime autoritario senza partiti potesse risolvere il problema della corruzione e del degrado della politica. Era diventato fautore dell’alleanza con la Germania nazista, attratto non tanto dalla figura di Hitler, ma dall’idea che la Germania potesse ridare al suo paese i territori “ingiustamente” perduti dopo le guerre balcaniche degli anni 1912-13. Per questo non si fece troppe remore quando i tedeschi chiesero al suo paese di approvare le leggi razziali.
Il giorno in cui si tenne la discussione in parlamento, Pešev presiedette la seduta in qualità di vicepresidente. Pensava in quel momento che quelle misure fossero poca cosa e che tutto si sarebbe risolto in una farsa. Non immaginò le vere conseguenze: i nazisti, di lì a poco, avrebbero richiesto la consegna di tutti gli ebrei.
Pešev continuò normalmente la sua vita aristocratica nell’ambiente altolocato della classe dirigente finché, una domenica mattina, all’improvviso, ricevette la visita disperata di un amico che non vedeva da anni: era un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil, la cittadina al confine con la Macedonia dove Pešev aveva vissuto fino all’adolescenza. Lo informò che il governo, in accordo coi tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva gli ebrei dovevano essere rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia (la destinazione, allora sconosciuta, era Auschwitz).
Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Pešev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n’era preoccupato. Di fronte alla richiesta di un conoscente Pešev decise di agire con l’intento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil. Si diresse in parlamento, radunò qualche altro deputato, e quindi andò nell’ufficio del ministro degli interni Gabrovski e dopo uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l’ordine della deportazione. Poi si accertò personalmente via telefono con tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato.
Poiché in questo modo la deportazione era stata solo sospesa, Pešev decise di lanciare un’offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dei cinquantamila ebrei bulgari. Stese una lettera di protesta molto dura e raccolse le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine tanto. Questo gesto di ribellione gli costò molto caro. Perse la carica in parlamento e rischiò di essere consegnato ai tedeschi, qualora l’esito della guerra si fosse risolto a loro favore.
L’obiettivo fu comunque raggiunto, poiché la sua denuncia ebbe l’effetto sperato. Lo zar, sentendosi scoperto, fece marcia indietro, forse vergognandosi di quanto stava permettendo e tutto il paese insorse a favore degli ebrei.
Le accuse alla fine della guerra .
Morto lo zar improvvisamente nell’agosto del 1943, Pešev riscoprì i valori democratici e si batté per un cambiamento politico del paese e per il riallineamento della Bulgaria con l’Occidente. Commise però l’errore di denunciare pubblicamente in parlamento il comportamento dei partigiani, che a suo parere stavano consegnando il paese ai russi. Ciò gli si ritorse contro al momento dell’occupazione della Bulgaria da parte dell’Armata Rossa.
Pešev fu processato con l’accusa di essere antisemita e antisovietico. Nel corso del processo, l’accusa arrivò a insinuare che avesse salvato gli ebrei in cambio di denaro. Fu categoricamente smentita dagli ebrei giunti appositamente da Kjustendil per difenderlo. La corte era ugualmente intenzionata a condannarlo a morte, come fece con altri venti deputati che avevano firmato la sua lettera di protesta. Il suo difensore ebreo però ricordò alla corte che Pešev nel 1936, quand’era ministro della giustizia, aveva salvato dalla condanna a morte Damjan Velčev, il nuovo ministro della guerra, autore del golpe comunista attuato con l’arrivo dell’Armata rossa. Pešev ebbe in tal modo una condanna a 15 anni di carcere e dopo un anno fu rilasciato. Il gulag, subito dopo, gli fu risparmiato solo grazie all’intervento di un suo vicino di casa, responsabile della cellula comunista del quartiere, che Pešev aveva salvato a suo tempo dal licenziamento.
Uscito di prigione, il governo gli tolse la possibilità di esercitare una professione, mentre i venti firmatari della lettera di protesta vennero condannati a morte, e il partito comunista bulgaro si prese il merito di aver salvato gli ebrei bulgari.
Nel 1973 la commissione di Yad Vashem gli attribuì il titolo di “Giusto tra le Nazioni” per il ruolo avuto nel salvataggio degli ebrei bulgari, a rischio della sua stessa vita.
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