Certi giorni mi dico che se non avessi scritto una sola riga in vita mia le cose non sarebbero poi tanto diverse da come sono, la Terra continuerebbe a girare intorno al suo asse terrestre, la poltrona su cui mi siedo ogni mattina quando entro in ufficio cigolerebbe a ogni minimo movimento, come un cane che guaisce di dolore (forse una delle grandi consolazioni dell’invecchiare è che si delegano agli oggetti le nostre sofferenze, in modo che siano loro a lamentarsene per noi), le persone che mi conoscono continuerebbero a considerarmi per quello che sono, dal momento che le cose che scrivo mi cadono intorno come pallottole da un altro mondo, la mia idea di come funzionano le cose sarebbe essenzialmente invariata (scrivere non aiuta a capire come funzionano le cose, al massimo, se la scrittura è davvero efficace, contribuisce a distruggerle per sempre), ogni mattina, alle sette e ventinove, continuerei a comprare al distributore automatico la solita bottiglia di Ferrarelle da 0,50, assaporando la bella sensazione che mi dà appoggiare la mano sulla condensa fredda, vivrei dalla stessa parte e continuerei a considerare i posti esotici e pieni di sole ostili alla mia emotività, alle elezioni voterei sempre allo stesso modo e continuerei a pensare che mi attraeva di più la vecchia politica, ossequiosa e solenne, rispetto alla nuova, chiassosa e scanzonata, continuerei a detestare il disordine, la folla, i marciapiedi stretti, mi sentirei ugualmente disperato, debole e disprezzato (l’atto di scrivere non produce alcun effetto sull’autostima, né è da ritenersi un inibitore della ricaptazione della serotonina), se non avessi scritto una sola riga in vita mia non ci avrei perso né guadagnato, il mio stato di salute, a grandi linee, sarebbe questo, l’intera storia così impostata – un inizio, una parte centrale, presumibilmente una fine – sarebbe vissuta da me allo stesso identico modo, e in fondo ha detto bene uno scrittore inglese: “Quando uno non riesce in nessun’altra cosa, di solito si mette a scrivere”.
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