Se non sudi, non studi (la storia di Elia)

Da Massimo Silvano Galli @msgdixit

Ne abbiamo già accennato nel post "La memoria vien correndo?", in cui osservavamo la vetusta tendenza a pensare che solo laddove si stia fermi e immobili, magari sudando fatica, allora ci sia anche la prova di un impegno da premiare.

Nella scuola, tale condizione, si traduce spesso nella ridondante espressione: "Il ragazzo va bene, ma potrebbe fare di più," che in chissà quanti abbiamo ascoltato descrivere, come un'anatema, la performance di tanti studenti -io tra loro.

"Va bene, ma potrebbe fare di più," restituisce l'idea di un mondo in cui la fatica (le famose "sudate carte" del superfrainteso Leopardi) si stagliano quali positivi baluardi; mentre tutto ciò che non appare come tale, è da ritenersi sbagliato e, fondamentalmente, da punire.

È il caso di Elia, un bambino di quinta elementare, portato alla mia attenzione proprio in virtù di una segnalazione delle maestre in merito alla sua negligenza. Le insegnanti restituivano che il bambino non aveva problemi e che eseguiva i compiti con buona accuratezza e correttezza ma, per quanto rispettasse i tempi di consegna: "[...] ha sempre la testa tra le nuvole. Passa mezz'ora a guardare il soffitto e poi, negli ultimi dieci minuti esegue il compito.".

Quando ebbi modo di incontrare il bambino e di chiedergli il perché di tale comportamento, mi diede una risposta che è una vera e propria lezione: "Be'," disse, "prima penso, poi faccio il compito.".

Come non pensare a tante situazioni similari in varie aree dell'avventura umana: l'arte, ad esempio, dove ancora vige un massificato neofita disprezzo per tutto ciò che -appunto- non appartiene alla categoria del sudato; per cui la Fointaine di Duchamp o, chessò, uno dei tanti dripping di Pollock (per citarne due tra i tanti), non sono capolavori al pari di un qualsivoglia opera del Mantegna, ma incomprensibili fregature da bollare con le stigmate del "Questo lo so fare anch'io.".

Intendiamoci, criticare la categoria del "sudato" quale prova provata del'impegno, non significa stigmatizzare il necessario sacrificio, questione ben più ampia, oggi come mai censurata (non mancheremo di parlarne in questo blog); bensì non cadere nella tentazione di associazioni gratuite e pericolosamente etichettanti (come dimostra la storia di Elia) e, soprattutto, non finire per credere che solo chi ha sudato ha, allora, davvero studiato, poiché tale associazione è alla base del più negativo pregiudizio che avvolge, annichilendolo, il concetto di studio e, con esso, l'approccio più generale alla conoscenza.

In questo modo è evidente che studiare diviene l'esatto contraltare di divertirsi e, per estensione, di benessere.

Dovremmo, invece, anzitutto, insegnare ai nostri studenti, e fin dai primi anni, come studiare; poiché, come recita il motto che da anni condivido con i miei studenti, solo quando apprendere diventa facile, allora studiare diventa divertente e, se non proprio divertente, almeno non diventa quel massacro che spesso vivono molti studenti che, non avendo un metodo di studio, finiscono per passare la gran parte delle loro giornate chini sui libri, sentendo così tutto il peso di una vita amputata che è all'origine del disinteresse per la scuola, lo studio, il sapere, la curiosità.