Dopo la caduta del governo dei Trenta tiranni, i democratici tornano al potere. La rinata democrazia ateniese accusa Socrate di «corrompere i giovani» e lo condanna a morte. Per quale ragione il filosofo accetta la condanna, anche se la considera ingiusta, e non solo si rifiuta di fuggire, come gli avevano consigliato i suoi amici, ma, di fronte ai giudici, rivendica la portata del compito che egli ha svolto per la sua città? Leggiamo quanto scrive lo storico della filosofia Francesco Adorno: «…l’uomo in quanto uomo è dialogo e rapporto, cioè in quanto è societas, si capisce come per Socrate cominci ad esservi uomo quando c’è la legge, quando si costituisce vita politica, e come quindi ogni uomo sia uomo in quanto è “figlio” delle leggi (cfr. Critone). E poiché non esiste uomo in astratto e Leggi in astratto, l’uomo è sempre uomo in un certo momento storico, la legge è sempre legge in un certo Stato. E la legge di questo o quello Stato, che costituisce questo o quel rapporto politico, questa o quella “società”, potrà essere modificata, ma in quanto discussa e, insieme agli altri, sostituita. L’uomo, dunque, che si sottrae alla legge di questo o quello Stato, venendo meno ai patti, venendo meno al giuoco umano, cessa di essere uomo. Se Socrate, condannato a morte dalla legge dello Stato, perché ritenuto colpevole di avere con la sua parola corrotto i giovani e negato le patrie divinità […] fosse fuggito e fosse andato in altro luogo, avrebbe davvero cessato di essere uomo. Invece, morendo, sia pur in nome di una legge che poteva essere stata ingiustamente applicata, Socrate rimane uomo» (F. Adorno, La filosofia antica).
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