Alla tenera età di 21 anni mi sono ritrovato, dopo varie vicissitudini legate al mio percorso di studi, a poter frequentare un corso di lingua a Berlino per tre settimane. Il Muro, i club techno, il divertimento, la birra che costa meno dell’acqua, le droghe leggere tollerate. Esatto, tutte queste cose e anche qualcosa di più. Se avete degli amici festaioli, vi sarete sicuramente accorti già da tempo che la nuova capitale tedesca ha soppiantato, piuttosto prepotentemente, la altre capitali europee, soprattutto per quanto riguarda scena musicale e vita notturna.
Quale occasione migliore di tastare con mano questo sottobosco notturno a base di musica elettronica fino al sanguinamento delle orecchie? Tutti coloro che si sono presi la briga di cercare informazioni sulla vita notturna berlinese sapranno sicuramente che c'è un nome che spicca su tutti gli altri: Berghain. Il nome è la fusione di quello dei due quartieri, Kreuzberg e Friedrichshain, sul cui confine sorge il locale. Ex centrale elettrica, il palazzo si erge imponente e un po' spettrale nel mezzo di un piccolo deserto urbano. I finestroni alti e stretti come fenditure lascerebbero indugiare l'occhio incuriosito, se non fosse che sono tutte oscurate per custodirne i loschi segreti.
La mamma del Berghain si chiamava Ostgut: antico punto di riferimento per la vita notturna gay a base di lattice, borchie e techno (sì, a Berlino tutto ciò che è techno è anche gay o, per lo meno, gay-friendly). In eredità, ha lasciato appunto questa atmosfera libertina e tante dark room in cui i più lascivi possono scatenarsi. I pochi fortunati che hanno potuto comprare una Berliner Pilsner in uno dei bar dentro al locale saranno rimasti un po' spiazzati dalla scultura, incorporata nel bancone, raffigurante uomini di gelatina intenti a praticarsi fellatio varie con la sete di un beduino del deserto che ha lasciato la borraccia in tenda.
Sono solo pochi i fortunati, però. Eh sì. I più informati sapranno anche che nel Berghain è infatti praticamente impossibile entrarci. Intanto perché dove finisce la fila per entrare non si vede neanche più il locale. Il cordone umano risultante, poi, copre sicuramente qualche chilometro. Inoltre, sciami di turisti Easy-Jet da tutto il mondo arrivano il venerdì e ripartono la domenica solo per potersi fare una serata al Berghain (non riuscendo a entrare, n.d.r.). Infine, la door selection pare essere veramente spietata. Dico pare perché è impossibile trovare informazioni certe o regole schiette.
Su internet si trovano una marea di articoli, ma sembrano concordare però solo su alcune cose basilari: essere vestiti un po' da barboni radical-chic, niente ubriachezza molesta, niente atteggiamenti vistosi, niente gruppi grossi. Il solito che ci aspetterebbe da un club underground a Berlino, insomma. Secondo i berlinesi con cui ho parlato, l'unica soluzione è presentarsi alle prime luci del mattino, a serata quasi conclusa, oppure cercare di sembrare il più gay possibile (rimanendo sempre un barbone radical-chic, mica facile).
A orchestrare tutta questa pantomima della door selection, c'è una sola testa: Sven. Fotografo su pellicola e antica gloria della coraggiosa scena alternativa dell'ex-DDR sovietica, Sven è famoso almeno tanto quanto il Berghain stesso. È lui che decide chi entra e chi farebbe meglio ad annegare il proprio disappunto altrove. Faccia sfregiata da tatuaggi alla Mike Tyson, piercing e orecchini ovunque, corporatura possente e vestiti da pappa anni '90 sono la sua formula segreta per farti sentire un ometto piccino piccino capitato per sbaglio davanti alla porta d'ingresso.
Malgrado tutto ciò, noi – ovvero il suddetto italiano, uno sbarbino ungherese alle prime armi e una provvidenzialmente fascinosa ragazza rumena – abbiamo deciso lo stesso di provarci. Malgrado gli altri ragazzi del corso ci avessero abbandonati in favore di altri club meno pretenziosi. Malgrado gli inglesi davanti a noi continuassero a scalpitare e a profetizzare che la fila fosse troppo lunga per poterci fare entrare tutti. Malgrado sì che il Multikulti a Berlino va forte, ma il nostro assortimento non è che fosse proprio dei migliori. Malgrado si vedesse lontano un chilometro che la nostra prima barba ce la fossimo fatta non troppo tempo prima.
In realtà, non ci abbiamo messo poi troppo a procedere, passo dopo passo, sulla nostra Via Crucis, fino alla porta d'ingresso. E lì è cominciato il bello. Lì abbiamo potuto guardare Sven negli occhi. La tensione ha iniziato a schiacciare forte sulle tempie e la tentazione di scappare via urlando “ok, scusa, non ci entro qua, vado da un'altra parte, ho capito” è diventata sempre più forte. Quando ci siamo trovati a qualche centimetro dal famigerato Sven la vista ha iniziato ad annebbiarsi. Immaginate di essere squadrati da capo a piedi per due minuti buoni sapendo che qualche migliaio di persone dietro di voi vi sta fissando sperando che i bodyguard vi scaraventino verso l'uscita.
Immaginate ora la sorpresa quando Sven ci ha fatto segno di entrare. Noi? Al Beghain? Non può essere vero. E invece sì. L'inevitabile perquisa, che a Berlino non manca mai, e via!, catapultati dentro questo apparato digerente di corridoi stretti, stanze buie e immensi atri che sembrano non avere un soffitto. Oltre ai due palchi, quello principale, e il Panorama Bar, ovunque continuavano a spuntare divanetti, sedie, salotti, bar, scale, stanze completamente buie. Un dedalo del vizio e del peccato. L'atmosfera era infatti già calda. La seratina non era manco una delle solite: a parte una manciata di dj più o meno famosi, in programma stavano anche niente meno che sua maestà Jon Hopkins e l'ottimo duo americano Blondes, usciti con un disco imponente a inizio 2012.
Il vero apice della serata c'è stato però con il dio britannico. Arrivato quasi di soppiatto, si è fatto subito sentire. Inutile scomodare parole come genio per un'artista che ha saputo creare, live ovviamente, un mix perfetto tra quella che è la propria visione musicale (molto raffinata e, a tratti, fighetta) con le necessità da dance floor di chi è venuto lì per dimenare braccia e gambe. Un live che ha lasciato tutti di stucco e pieni di soddisfazione. Tutti su al Panorama Bar, però, che, dieci minuti dopo la fine del suo live, hanno cominciato i Blondes. Qui l'atmosfera ha iniziato a farsi un po' troppo da after party per i gusti di molti. I due americani hanno deciso di fare semplicemente quello che si trovano più a loro agio fare. Il ritmo è rimasto quindi quasi sempre così lento che anche i ballerini più fantasiosi hanno dovuto limitarsi a ondeggiare solo un po'.
Difficile, se non impossibile, spiegare tutto quello che è successo quella sera dentro le spesse mura del Berghain. Così come all'interno è vietato fare foto, altrettanto immorale mi sembra scendere nei dettagli più fini. Per avere un'idea generale, però, si può provare a immaginare un'atmosfera bollente in cui, però, non manca mai l'aria per respirare e lo spazio per muoversi; popolata da persone che spaziano dal jeans e la felpa ai costumi di pelle a tema fetish; dove ognuno balla per sé e nessuno fa niente di sbagliato finché al centro dell'attenzione resta la musica. Immaginate tutto ciò e, se vi capita di sentire o leggere qualcosa di assurdamente strano sul Berghain, potete stare tranquilli che è vero al 100%.
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