C'è una ragazza che cammina pensierosa, lungo la Pine Street di Seattle, trascinandosi dietro una grande valigia azzurra.
Cammina in discesa, più veloce di quanto forse vorrebbe, da Capitol Hill verso la Westlake Station, passando davanti ai locali alternativi, sul viadotto dell'autostrada, di fronte agli alberghi di lusso ed alle boutique del centro.
Quella ragazza sono io, oggi, mentre salutavo Seattle per avviarmi verso l'aeroporto di Tacoma, dove avrei trascorso la mia ultima notte qui nello stato di Washington, prima di prendere il mio volo per San Francisco domattina all'alba.
Quella ragazza sono io, e quello a cui sto pensando è Seattle stessa.
Seattle che mi chiamava da tempo; Seattle che mi ritrovavo in ogni libro che leggevo, in ogni rivista che sfogliavo, ogni volta che accendevo la televisione.
Seattle che forse mi voleva, Seattle che forse io volevo - ma che, una volta che sono arrivata, mi ha accolta un po' freddamente, con l'indifferenza di chi ha difficoltà ad aprirsi, di chi ha paura a lasciarsi andare.
Seattle che non sono sicura di essere riuscita a conoscere veramente - ma che, se ci fossi riuscita, forse avremmo potuto entrare in sintonia.
Seattle è una città in salita - e questo forse è stato il suo aspetto che mi ha sorpreso di più. E' in salita quando arrivi, quando fai fatica a conoscerla; è in discesa quando parti - ma è una discesa che corre via troppo veloce: vorresti rallentarla, fermarti ancora un attimo, cercare di capirla ancora un po'.
Sorge su sette colli, come Roma; ma non le interessa dominare il mondo. E' soprannominata la Città Smeraldo, per il verde in cui è immersa - ma nella zona centrale non ha nessun parco.
Seattle è la città della pioggia, così come altre città che amo - ma a me ha anche regalato un po' di sole.
Come recita un graffito in cui mi sono imbattuta, inciso su delle piastrelle di ceramica lungo il viadotto di Pine Street, "Non mi piacciono le nuvole, ma mi piacciono le ombre".
Le ombre, le contraddizioni, le anime complesse e difficili - ma belle ed intense.
Seattle ha una sua bellezza, una sua intensità, che rivela a sprazzi, nel suo mercato coperto fatto di legno e meravigliose stranezze, nelle strade dal sapore ottocentesco attorno a Pioneer Square, nei suoi negozietti stravaganti e sofisticati. Del resto poco si cura: ama proiettarsi verso il futuro con il suo Space Needle che guarda verso il cielo; ma sa anche essere anonima e trasandata.
E' un'introversa di stampo burbero.
E' un'artista, progressista, alternativa e trasgressiva, vive slow e mangia bio. Odora di legno, di umidità ed è un meraviglioso crocevia culturale - con una comunità asiatica molto grande ed una presenza molto forte della cultura e delle tradizioni dei Nativi d'America.
Seattle nei miei ricordi sarà il mio vagare fra i negozietti e la bancarelle di Pike Place; il Waterfront con l'oceano da contemplare racchiuso fra due ali di grattacieli; la clam chowder quasi buona come quella del New England; i totem indiani; le salite & le discese; i negozi orientali dell'International District; l'appartamentino vintage e vissuto che ho affittato a Capitol Hill, da cui si vedeva lo Space Needle dalla finestra della cucina - e soprattutto KP, il gattone tigrato che ci abita: una presenza morbida e comunicativa, che ho lasciato a malincuore.
KP: in fondo tutti i gatti hanno un debole per le valigie...
Così come ho lasciato a malincuore Seattle - il malincuore che si ha quando le cose, forse, sarebbero potute andare meglio, per qualche motivo soltanto sfiorate e non vissute fino in fondo.
Ma chissà - magari prima o poi verrà l'occasione per darci una seconda chance...