Sedurre e ingannare: il mito del Don Giovanni
a cura di LORENZO SPURIO
Etimologicamente la parola ‘seduzione’ ha come ampiezza di significato quella che si iscrive all’interno delle due parti di cui il lemma è composto. Il prefisso ‘se’ indicherebbe un atto di separazione mentre il ‘ducere’ latino non è altro che il “condurre”, “menare”. Così analizzato il termine seduzione ha a che vedere con quell’atteggiamento che si caratterizza per una separazione dal bene, un condurre fuori dal retto cammino, nonché una distorsione dalla dimensione di bontà. Ciò viene fatto con lusinga ed astuzia. Chiaramente non è propriamente questa l’accezione che normalmente attribuiamo al termine che, infatti, sta ad indicare una forma relazionale piuttosto disinibita dove l’ostentazione dell’avvenenza, della prestanza e dunque di una certa predisposizione all’altro si fa palese tanto da divenire messaggio subliminale che l’interlocutore è in grado di cogliere, non di rado anche grazie alla presenza di un linguaggio non verbale fatto di accenni, mimica facciale o gestualità dal significato piuttosto chiaro.
Numerosi potrebbero essere gli episodi letterari, più o meno noti, che sarebbe possibile evocare per cercare di condurre un discorso tematico di questo tipo. Universalmente noto è il richiamo narcotizzante delle Sirene per Ulisse e i suoi compagni, quest’ultimi sedotti piuttosto facilmente dalla Maga Circe e tramutati in animali di varia razza. Viene poi a mente, così, senza un particolare logicismo, anche la ritrosia della bella Elisa di Rivombrosa nel concedersi al padrone il Principe Filippo Ristori, sebbene questa sia una storia nata inizialmente per una resa cinematografica e non propriamente letteraria, legata però alla celebre Pamela del narratore inglese Samuel Richardson. Rimandi anche a Tess d’Uberville di Thomas Hardy sono vieppiù necessari ed evidenti sebbene qui il sesso assuma la forma poi di un atto di dominazione nel momento in cui Alexander adopera l’arma dello stupro. Charles Bukowski, a suo modo, ci parla, anche in maniera abbastanza colorita, del sovvertimento emozionale che la vista di donne, ora prosperose, ora sbarazzine e quasi bambine, suscita in lui, ricevendo dunque una folgorazione netta, dettata proprio dal potere seducente (la malia) della donna. Sono, questi, forse degli esempi non così pregnanti per poter parlare del fenomeno che, infatti, è assai capillare e prospettico nel senso di assumere, all’interno di ciascuna narrazione, una sua peculiarità distintiva nel rapporto che si viene a istaurare tra il seduttore e il sedotto. Chiaramente l’elemento seducente non è sempre e solo una donna, ma può essere un uomo per una donna o ancor più un uomo per un altro uomo. Si ricordi ad esempio il rapporto intimo e arcadico dei due giovani cowboy in I segreti di Brokeback Mountain di Annie Proulx reso celebre dal film o l’autobiografico io narrante di Orlando, portavoce di un fascino incantato verso la donna-non donna oggetto dei suoi desideri, una pacata dichiarazione d’amore dinanzi a un essere tanto ammaliante e persuasivo, la cara amica Vita Sackville-West in un’esemplare formulazione di amore saffico. Si tenga a mente anche la spasmodica e virulenta seduzione verso gli adolescenti intesa come insaziabile sete di vita nel maledetto Dario Bellezza, nel libertario Pasolini e nel più disincantato Sandro Penna o, per guardare ancora oltre Oceano, verso Lolita, l’innocua ragazzina che diviene la compagna del protagonista, in Nabokov. In questi ultimi casi (qui avvicinati in maniera assai veloce e che necessiterebbero una maggiore trattazione) la seduzione sembra in un certo qual modo essere spogliata di quel suo velame sontuoso e romantico, di ricerca mitica e di rimandi –un po’ come in Bukowski- per delegare una più succinta e spietata ricerca dell’amplesso volta al sovvertimento della pietosa condizione d’isolamento e di disagio e l’esaudimento completo di quel senso di mancanza. Il più truce dei seduttori è senz’altro il Conte Vlad che, nella sua dimora diroccata e polverosa, seduce giovani inglesi tramite la sua spiccata avvenenza con il fine di dissetarsi del loro sangue infettandole del suo morbo. Si tratta, però, di un fascino tenebroso che viene esercitato non per il vero ottenimento di un piacere sessuale (la deflorazione della vergine, la penetrazione) ma per una necessità fisiologica (l’abbeveramento da sangue) tanto che Dracula è proiettato verso una sessualità collegata alla bocca quale zona erogena e non all’apparato genitale.
Va anche detto che parlare di seduzione non necessariamente implica parlare di sesso sebbene l’immagine della donna civettuola, avvenente, disponibile e “di piacere”, ossia la prostituta, (mi vengono in mente Fanny Hill e Lady Roxana sebbene queste due narrazioni avessero una dimensione di denuncia sociale) permette di argomentare un denso capitolo all’interno dei rapporti umorali (e poco emozionali) tra l’avvenenza e la ricerca di godimento.
L’atto del ‘seducere’, ossia del catturare magneticamente l’attenzione dell’altro, rende palese la duplicità costitutiva del genere umano dinanzi a detto atteggiamento. Da una parte chi sa di essere stimato, seguito, amato, ricercato perché ha in sé un qualcosa di invidiabile che l’altro ricerca, dall’altra chi si lascia incantare, chi percepisce la sensazione delle farfalle nello stomaco, chi è talmente assuefatto dall’avvenenza fisica, dalla profondità mentale, dalla ricchezza umana dell’altro. La seduzione, dunque, è forse una insopprimibile interrelazione non verbale che ha in sé i dettami della democrazia. Nel senso che coinvolge tutti indistintamente: uomini e donne, bambini ed anziani, ricchi e poveri, bianchi e neri, etc. ed è il discrimine di un’esigenza sentita propria: ciò che rappresenta il complesso della seduzione (la serie degli elementi che consentono la persona di sentirsi sedotta) non è mai solamente sessuale, volta cioè al suo avvicinamento, conquista fisica dell’altro e godimento vero e proprio, ma ha delle ragioni di carattere psicologico che risiedono in una sorta di empatia sentita, in un sistema difficilmente spiegabile in termini razionali fatto di soggezioni e timori, affetti ed apprensioni, ricerca di attestazioni e necessità insopprimibili di credere che quel legame seduttore-sedotto esista perché punto fermo ed inderogabile sul quale scrivere e motivare la propria esistenza.
Don Giovanni, assieme a Casanova, è probabilmente il più grande seduttore che la letteratura e, di converso, l’opinione pubblica ricordi ed evochi. Non è un caso che nel parlar comune sono frequenti espressioni idiomatiche quale “è un dongiovanni” o “è un Casanova” spesso impiegate in maniera sinonimica sebbene abbiano alle loro spalle un retroterra di motivi differenti tra i due caratteri. La prima cosa che va detta è che Don Giovanni non è un seduttore propriamente detto, sebbene ci si riferisca spesso, per semplificare, a lui con questa terminologia. Non lo è per il semplice motivo che nelle sue avventure non è mosso dal desiderio di conquistare le donne per motivi sentimentali ma di conquistarle con l’inganno, prendendosi gioco di loro. L’arma che Don Giovanni impiega nelle sue avventure, a differenza di Casanova, non è quella della seduzione, dell’autodichiarazione dell’amore, ma quella dell’inganno ed è lui stesso a dichiararlo in più punti nel corso dell’opera come quando al servo Catalinón dice “Burlar/ es hábito antiguo mío”[1] o, alcuni versi più avanti, quando rende il concetto in maniera ancora più diretta:
Don Juan: Sevilla a voces me llama
el Burlador, y el mayor
gusto que en mí puede haber
es burlar una mujer
y dejalla sin honor. (112)
Don Giovanni impiega due modalità per ingannare le donne: il travisamento dell’identità attraverso l’utilizzo di abiti di altri personaggi e l’ipocrita adulazione e promessa di matrimonio. L’uomo è talmente furbo da aver sperimentato che è necessario adoperare un progetto arguto nel cercare di sedurre donne appartenenti all’alta classe sociale e proprio con Isabela ed Ana adopererà lo scambio di identità indossando dei particolari distintivi dei rispettivi amanti. Se riesce abbastanza facilmente a gozar Isabela (ci troviamo all’apertura dell’opera quando l’amplesso è già avvenuto), con Doña Ana non riesce perché lei è in grado di riconoscere che non si tratta del suo amante e sventa l’inganno. Per quanto concerne le donne popolane (la pescatrice Tisbea e la contadina Aminta) Don Giovanni mette in atto l’espediente del corteggiamento esasperato, dell’adulazione delle grazie della donna con la quale vuol far trasparire il completo innamoramento che nutre verso di esse. Entrambe le donne, che si mostrano lusingate dalle sue attenzioni e belle parole, prima di lasciarsi andare chiedono perentoriamente all’uomo se sta facendo sul serio e Don Giovanni, oltre a rassicurarle, non manca di illuderle promettendo di sposarle. Questo tipo di approccio porta a una facile persuasione nella donna che le parole dell’uomo siano vere e dunque sentite e dall’altra enfatizzano ancor più il loro coinvolgimento ed amore verso di lui da divenire palese:
Tisbea: El rato que sin ti
estoy ajena de mí. (91)
Quando a Don Giovanni è chiaro che l’operazione dialettica del corteggiamento è stata efficace e che è ben riuscito a circuire la donna, non fa mancare la sua dichiarazione di impegno verso la stessa che in termini pratici viene a suggellare il loro rapporto d’amore da vivere nel piacere delle carni:
Don Juan: […] te prometo de ser
tu esposo. (92)
A questo punto non c’è più spazio per la componente comunicativa tra Don Giovanni e la donna e si realizza il fine ultimo del Nostro ossia riesce finalmente a godere del rapporto sessuale che Tirso de Molina non descrive ma che lascia intuire. Pochi versi dopo, il lettore accoglie con nessuna sorpresa la scena in cui la donna, scopertasi burlata, si dispera e inveisce contro l’uomo che vigliaccamente l’ha circuita per il soddisfacimento del suo piacere, disonorandola:
Tisbea: ¡Ah, falso huésped, que dejas
una mujer deshonrada!
[…] Engañóme el caballero
debajo de fe y palabra
de marido, y profanó
mi honestidad y mi cama. (95-96)
Esemplare è la presenza del catalogo, elemento importantissimo nella configurazione mitica di Don Giovanni quasi a rappresentare una invariante dello stesso, un denominatore comune delle varie versioni che dall’opera originale di Tirso de Molina nel tempo si sono succedute. Il catalogo rappresenta la quantificazione numerica in chiave iperbolica delle prodezze sessuali di Don Giovanni che spesso vengono rievocate (citando i nomi delle donne, il luogo della burla e l’inganno adoperato) dal suo fido servo Catalinón. Esso, da testamento concreto degli episodi ingannatori di Don Giovanni, funge da elemento simbolico con una funzione ulteriormente accrescitiva della grandezza dell’uomo secondo l’equazione banale e stereotipata: più donne si sono possedute, più si è valoroso.
Don Giovanni potrebbe essere un conquistatore ardito, un nobile da invidiare se le sue azioni non producessero delle risposte indignate e dei procedimenti contro di lui per l’offesa al codice dell’onore tanto importante nella società spagnola. Il re, che nel corso dell’opera sembra apparire come uno dei personaggi più deboli, nonostante decida per gli altri ed emetta ordini, finisce al termine della vicenda per essere burlato anche lui da Don Giovanni. Quando Aminta, Tisbea ed Isabela, che sono le tre donne effettivamente ingannate nel corso dell’opera[2], reclamano giustizia per aver perso il loro onore in maniera ingannevole a causa di Don Giovanni, il re emette la condanna a morte per il dissoluto, ma essa non ha nessuna efficacia perché il libertino è già morto, senza che lui l’abbia saputo.
L’uomo è rimasto ucciso nella scena finale, quella del contro-invito nella tomba del Commendatore[3] che, tempo prima, lui stesso aveva ucciso a duello dopo aver tentato di abusare della figlia Ana. Don Giovanni assiste senza nessun timore (a differenza del servo Catalinón) all’astrusità del morto che ritorna per vendicare non tanto il suo atto spregevole (o, meglio, la sua intenzione) contro la figlia, ma per essersi mostrato irriverente nei confronti della morte e della religione. Nella scena della cena, dove la statua del Commendatore offre vipere e scorpioni, il Commendatore chiede la mano a Don Giovanni e con una presa infuocata lo trascina agli Inferi, sotto lo sguardo allucinato di Catalinón.
Il motivo della mano (di chiedere la stretta) è assai importante all’interno dell’opera ed è il mezzo pratico con il quale si compie l’inganno. Don Giovanni, infatti, nelle sue varie conquiste ingannevoli di cui si rende protagonista spesso chiede la mano alle rispettive donne come atto estremo d’amore e rispetto e impegno di matrimonio. Significativo è il fatto che Don Gonzalo attui la condanna celeste proprio per mezzo del gesto della mano a castigo irreversibile delle sue tante beffe. Si veda di seguito l’uso del tema della mano che viene fatto nell’opera:
Don Juan: Ahora bien; dame esa mano,
y esta voluntad confirma
con ella.
Aminta: ¿Que no me engañas?
Don Juan: Mío el engaño sería.
Aminta: Pues jura que complirás
la palabra prometida.
Don Juan: Juro a esta mano, señora,
infierno de nieve fría,
de cumplirte la palabra.
[…]
Aminta: Pues con ese juramento
soy tu esposa. (148-149)
E di seguito la richiesta della mano che la statua del Commendatore (il morto) fa durante la cena nel suo sepolcro:
Don Gonzalo: Dame esa mano;
no temas, la mano dame.
Don Juan: ¿Eso dices? ¿Yo temor?
¡Qué me abraso! ¡No me abrases
con tu fuego!
[…] ¡Que me abraso! ¡No me aprietes!
[…] ¡Que me quemo! ¡Que me abraso!
¡Muerto soy! (Cae muerto) (179)
La punizione che il re prevede per Don Giovanni, per la sua condotta debosciata e libertina, è dunque inattuabile perché egli è già morto per volere di una giustizia divina, celeste, soprannaturale e non secondo la giustizia terrena che lui rappresenta. A nulla valgono il tentativo di duellare con la spada di Don Giovanni contro il morto, la rassicurazione di non aver compromesso sua figlia e la richiesta di pentimento perché quest’ultima non è sincera e giunge in extremis senza convincimento. Sebbene Don Giovanni nell’opinione comune sia il libertino per antonomasia, colui che ha molte donne perché ha gli stratagemmi che gli permettono di conquistarle, egli è anche e soprattutto l’empio che irride la morte, l’irriverente che si burla e nega l’importanza di una dimensione celeste. L’autore dell’opera, il frate Tirso de Molina, da religioso aveva ben a cuore questo secondo nucleo tematico volendo sottolineare con evidenza che il pentimento non può esserci per chi ha eretto la propria vita sul materialismo, su una condotta frivola fatta di esuberanze o che non può essere concesso in extremis, in maniera miracolistica, perché esso può essere il mezzo di salvezza solo per anime redente, che hanno preso consapevolezza del male perpetuato e intrapreso con serietà un percorso di remissione.
Tra le varie versioni successive[4] del mito del Don Giovanni quelle maggiormente note e studiate risultano essere quella di Moliére (1665), quella di Mozart con libretto di Lorenzo Da Ponte (1787) e in periodo romantico, sempre in ambito spagnolo, l’opera di José Zorrilla intitolata Don Juan Tenorio (1844).[5] In quest’ultima opera l’intercessione di Ines nella scena finale permette la salvezza di Don Giovanni che, assieme al personaggio femminile, sale in Cielo. Zorrilla prevede ugualmente la morte del corpo fisico dell’uomo, ma non la dannazione della sua anima come avviene in Tirso de Molina. L’epilogo dell’opera originale del frate andaluso è consegnata dalle parole del Re che riconosce che è stata fatta giustizia (sebbene non la sua, politica, ma quella celeste, del divino) e che, venuto meno l’elemento di disturbo, si può procedere alla consacrazione legittima delle coppie preesistenti:
Rey: ¡Justo castigo del cielo!
Y agora es bien que se casen
todos, pues la causa es muerta,
vida de tantos desastres. (183)
LORENZO SPURIO
03-01-2016
NOTE
[1] Tirso de Molina, El burlador de Sevilla, Castalia Didáctica, Madrid, 1997, p. 90. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione in lingua originale commentata.
[2] Don Giovanni tenta di ingannare anche Doña Ana promessa in sposa al Marchese de la Mota, ma non ci riesce perché lei lo riconosce, sebbene sotto mentite spoglie e prende ad urlare.
[3] Si tratta di Don Gonzalo de Ulloa, Commendatore dell’Ordine di Calatrava.
[4] Tra le altre numerosissime versioni dell’opera vanno citate The Libertine (1676) di Thomas Shadwell, Don Giovanni ossia il dissoluto (1736) di Carlo Goldoni, il poemetto Don Juan (1819) di Lord Gordon Byron, Il convitato di pietra (1869) di Puskin, Las galas del difunto (1926) di Ramón Maria del Valle-Inclán, El hermano Juan o el mundo es teatro di Miguel de Unamuno (1929), Don Giovanni in Sicilia (1941) di Vitaliano Brancati. Il primo Don Giovanni italiano, Il convitato di pietra (1671) di Giacinto Andrea Cicognini, sviluppa in particolar modo il secondo nucleo tematico quello del rapporto con la divinità (il morto che ritorna).
[5] Secondo un profilo cronologico a metà tra l’opera di Tirso de Molina (1630) appartenente al periodo barocco e quella di José Zorilla (1844) di epoca romantica si situa l’opera No hay plazo que no se cumpla ni deuda que no se pague y convidado de piedra (1713) di Antonio de Zamora che prevede per Don Giovanni il pentimento in extremis. L’opera di Zorrilla, che delle tre è la più elaborata scenicamente da apparire inverosimile, è confacente agli stilemi della nuova sensibilità romantica che acuisce l’interesse per il mistero e il senso di sorpresa. Non è un caso, infatti, che il sottotitolo dell’opera di Zorrilla riporti Drama religioso-fantástico-romántico.
Questo saggio è apparso per la prima volta sulla rivista di letteratura “Euterpe”, n° 18, Gennaio 2016, pp. 85-90, consultabile online e scaricabile in formato pdf.