In un’e-mail, confidavo a R. che non resisto alla tentazione di disseminare tracce e indizi come un ladro svagato. In realtà, non sono poi tanto svagato. Anzi, non di rado fabbrico specchietti per le allodole. “Mi diverto a mettere alcune indicazioni alla rovescia, giusto per rendere meno immediato il gioco delle deduzioni e condurre su false piste. Come adesso: pur mentendo, sto dicendo il vero - e/o viceversa”. R. ebbe da obiettare. “Mon cher ami, non me la racconti giusta! A forza di lasciare falsi indizi si finisce per dire la verità o per alimentare il pettegolezzo, che poi è una verità parallela...”.
Aveva ragione, ma non del tutto. Sebbene dia l’impressione contraria, io non sono un libro aperto. So che le mie parole fanno il fruscio delle pagine sparse al vento, ma sarebbe una maledizione se lo fossero: la mia vita diventerebbe incontrollabile, ne finirei disarcionato. In verità, maschero con l’apparente loquacità un particolare riserbo: le mie parole illuminano dove voglio e lasciano in ombra tutto il resto.
Non lo capì E., la quale proiettò se stessa nella protagonista femminile di un mio racconto. Sospetto che l’avesse letto troppo velocemente e con qualche pregiudizio iniziale. Quando domandò spiegazioni, io mi tenni sul vago: “Il testo appartiene a chi lo legge, ciascuno trova il significato che meglio crede...”. Non volevo darle soddisfazione. Lei si offese, disse che non approvava certi atteggiamenti e, in un messaggio privato, arrivò a darmi dello stronzo classista. Me la presi: non tanto perché mi aveva chiamato stronzo - il che può essere - ma perché non sono assolutamente classista. Mica me lo posso permettere…