Sei città – di Luigi Fiammata

Creato il 26 gennaio 2015 da Giovanni Pirri @gioeco

L’AQUILA – Un bambino nato nel 2009 a L’Aquila, il prossimo anno andrà in prima elementare. Dentro un Modulo ad Uso Scolastico Provvisorio.

Se non avessi paura di volare, dall’alto, vedrei sei città in una sola.

Vedrei la città delle frazioni: piccoli paesi con il loro Centro Storico.

Vedrei il Centro Storico della città de l’Aquila.

Vedrei la città delle speculazioni edilizie dei decenni passati; quella di Pettino, di via Strinella, di Sant’Elia, della Torretta….

Vedrei la città dei progetti C.A.S.E.

Vedrei la città dei furbi e degli ignavi, quella delle casette di legno, dei ruderi di pietra trasformati in palazzotti, quella di chi costruisce sull’argine di fiume e torrenti, dei capannoni industriali, prima del sisma abbandonati, e poi miracolosamente restaurati. Quella di chi aggiunge, come se la sazietà fosse la somma di ogni bulimia possibile.

Infine, vedrei la città dei nuclei industriali di sviluppo, sottratti alle scelte comunali, avocati dalla Regione senza che nessuno dica nulla. Diventati città, senza più confini, senza più funzioni.

Ma io non so volare. E ho paura di volare.

E queste città, le vedo camminando, rasoterra. Sono mischiate, tra loro. Indistinguibili.

Ma non comunicano tra loro.

Dentro gli spazi di uno spartitraffico c’è un prefabbricato di una azienda che si occupa di sicurezza. A piedi sarebbe pressoché irraggiungibile, senza rischi d’essere accarezzato da milioni d’automobili. Ma, non ha neanche lo spazio per consentire il parcheggio d’un auto. Nel verde incolto dello “stradone” è spuntato il prefabbricato di un’officina che sostituisce i vetri delle auto. Enorme, con parcheggio annesso e sbarra da passaggio a livello. La scuola De Amicis alimenta foreste. A Pettino, un vecchio casolare in pietra si arma di cemento e si innalza al cielo. Potrei divertirmi con una foto del “prima” e del “dopo”, come una cura ingrassante farlocca. Una intera collina di Genzano di Sassa viene riempita di palazzi, sette, otto, ho perso il conto, su una strada dove può passare una sola auto per volta, e che invece è a doppio senso di circolazione. Sul Vetoio, fisicamente sul torrente,  ci abbiamo fatto una rotonda, un’officina, un concessionario d’auto con autolavaggio, un ponte, un allevamento di trote.

L’auditorium giapponese spicca nel vento della solitudine. E il prossimo palasport giapponese sarà contiguo all’azienda indiana di recupero dei rifiuti elettronici. Il necessario traffico di TIR, per alimentare la fabbrica, sarà gestito sull’asse longitudinale della viabilità cittadina, che, da Scoppito a Poggio Picenze, vanta, a destra e a sinistra, decine di Centri Commerciali, alcuni dei quali in attesa, per cambio di destinazione d’uso dell’area; un distributore di benzina trasformato in un palazzo di cinque piani; una ex scuola privata che ha avuto modo al suo piano terra, di far aprire un locale commerciale; decine e decine di rotonde, e di esercizi commerciali dentro container, comprese quasi tutte le farmacie (le farmacie, negozianti senza risorse, come è noto !!!! ) del Centro Storico e non solo, tranne quella di Piazza Duomo, l’unica dignitosa, riaperta dai familiari della titolare, morta nel sisma, in un Centro Commerciale.

C’è una Piazza d’Armi dove non si può correre, ma ci si possono edificare chiese provvisoriamente abusive per sempre, e spiantare tutti gli alberi esistenti, sostituendoli con arbusti, giusto per favorire il parcheggio dei dipendenti della Guardia di Finanza.

C’è Viale del Croce Rossa dove si ammassa sotto le mura antiche della città la migliore rappresentazione possibile del situazionismo dadaista. Negozi, in muratura o in prefabbricato. Abitazioni, distributori benzina, depositi di lapidei, officine meccaniche ristoranti e pub. E tutti godono di un marciapiede multiuso, che non può essere camminato:  parcheggio, fermata di autobus, e luogo dove si poggiano i cassonetti dell’immondizia, e dove spuntano stenti alberi ingabbiati nell’asfalto. In viale della Croce Rossa, si edifica ovunque. Tra poco, anche nello spartitraffico dello stadio.

E, sempre lungo l’asse longitudinale della città, si arriva alla nuova tangenziale, la cui costruzione, che attraverserà una intera piana, di sopra e di sotto, passando panoramicamente sul progetto C.A.S.E. e su un gruppo di case di legno poggiate in zona alluvionale, è bloccata per il fallimento della ditta che ci lavorava.

Ma si può arrivare comunque, al Nucleo industriale di Bazzano e Paganica, che non ha le fogne, ma può ospitare il Tribunale, l’Archivio di Stato, un numero imprecisato di esercizi commerciali, che hanno trasformato una strada provinciale, in una strada del centro cittadino, con accessi laterali di ogni genere ogni dieci metri, ma senza marciapiede alcuno. E poi, banche, e imprese, quelle ancora esistenti, e bar, e supermercati e call center, e, forse una centrale nucleare a biomasse. Palestre, negozi di riparazione di prodotti elettronici e domestici, concessionari d’auto e qualche reperto archeologico d’epoca romana, ora abbandonato dentro il capannone di una azienda che è stata anche Università, e che fa sorgere la domanda, che non si può fare, se, l’antica Roma, fosse tutta concentrata in quei pezzetti di pietra dentro quell’azienda, o se magari, è nascosta anche da qualche altra parte, là sotto. Tutta là sotto. Pietosamente sepolta.

Un ex cinema, un teatro, impianti sportivi. E capannoni industriali dismessi, senza bonifica, forse.

E poi, i moderni casinò…loculi con le lucette elettroniche e le musichette ipnotiche. Dislocati lungo lo stesso asse. A ovest, come a est. Ma anche a nord, a sud, a sud-ovest. A sud-est e a nord- ovest, e a nord-est. Qualcuno anche sotto il piano stradale. Da Scoppito a Poggio Picenze, quasi trenta chilometri di città senza poter respirare, altro che smog. Diesel o benzina verde, a scelta. Talora gas, come gli impianti di rifornimento infilati in mezzo ai palazzi.

Una città, una qualsiasi via di una città, è il frutto di una storia. Delle relazioni che si sono sovrapposte e alimentate tra uomini, e tra uomini e donne, e tra Stati, e tra popoli. Tra famiglie, clan, tribù. Le relazioni tra poteri e conflitti. Le relazioni di mercato. Tutto quello che lascia un segno, sta dentro le vie di una città, persino le guerre, e la pace, e l’arme, e gli amori.

E io, io che non so, e non posso volare, e che solo rasoterra posso, più o meno camminare, mi accorgo che non ci sono le parole, e le comunicazioni.

L’Aquila, è  il regno della funzionalità astratta impossibile.

Ma non razionale.

Il sobborgo galleggiante, una razionalità dovrebbe averla, penso, mentre guardo lo scatolone del bar “mon amour”, che precede il casinò di “Ocean’s eleven”, andando verso l’aeroporto di Preturo. Che non vola sul Gran Sasso, che non scia a Campo Imperatore, ma che ha un Presidente del Parco ricco di meriti. Come ogni manager che ci circondi, a partire dal padrone dell’ospedale nei container. Sì, il nostro ospedale che domina, dall’alto della sua salubrità, un laghetto adibito a pesca sportiva, a due passi dal traffico che va verso Cagnano e Montereale, dove ho forte il sospetto che tutta la bellezza dell’Aterno, nasconda covi di spaventoso inquinamento.

La funzionalità astratta che governa la ricostruzione, come prima più di prima.

Ogni piccolo pezzetto, ogni piccola monade, perfettamente progettata, secondo norma, o sostituita, secondo norma, o calcolata parametricamente, secondo norma. E senza alcun rapporto con la finestra di fronte, con la strada di sotto, col cratere sottoterra, col fiume di nuvole che percorre il cielo, col bosco d’alberi abbattuti e bruciati di San Giuliano o di Roio. Ognuno per sé, e qualche dio per tutti. Nessuna comunicazione, tra case e luoghi, nessun filo, nessun legame tra persone. Ogni casa per i fatti suoi. Tutto secondo legge, secondo economia e correttezza, forse.

Mentre sulla costa fanno l’azienda unica dei trasporti, che però l’unico profitto lo fa con la tratta L’Aquila-Roma, noi abbiamo gli autobus che, se fosse aperto il centro storico, dentro, non ci potrebbero andare, per quanto sono grossi e inquinanti. Un’azienda di trasporti pubblici che boccheggia, che non è favorita in nessun percorso, che non può aiutare i cittadini, ma che, in compenso, avrà, immagino, grande giovamento dal suo Consiglio d’Amministrazione, esattamente come le altre municipalizzate; e, chissà mai, se l’ex manager (ora responsabile dell’azienda comunale dei rifiuti ) della ex banca locale, che, cambiati nome e proprietà, non ha alcuna intenzione di rimettere in piedi i suoi palazzi nel Centro Storico, la fa mai una passeggiata a piedi, dal parcheggio di Collemaggio alla Fontana Luminosa, guardando per terra e sulle banchine incolte l’orrendo appoltigliarsi di sudiciume non riciclabile che appesta lo sguardo e il cuore.

Ma io vorrei non avere anche i pensieri rasoterra. Elevarmi, dal lamento e dal pettegolezzo. Certo, dovrei smettere di guardare lo scempio perpetrato lungo il torrente Raio, nel nucleo industriale di Pile. Il letto del torrente ingombro d’ogni detrito possibile e immaginabile, le sponde scarnificate d’ogni albero, su cui si poggiavano, persino, aironi, germani reali e poiane, per realizzare opere di prevenzione delle alluvioni, bloccate dai ricorsi al TAR.

Mentre si potrebbe andare a piedi, in bicicletta o a cavallo, lungo tutto il corso del fiume Aterno e in parte degli affluenti, da est a ovest della città, e così, comunicare….

Come si potrebbe comunicare se le caserme vuote fossero riempite di case a costi bassissimi, per i Dottori di Ricerca dell’Università, o per i giovani ricercatori delle Aziende private che ancora eccellono a L’Aquila, o per gli studenti e insegnanti del Gran Sasso Science Institute o dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. Che potrebbero mischiarsi fisicamente, e così comunicare. Fecondarsi di idee.

Ci vorrebbe un Assessore alle piazze, ai marciapiedi, alle convenzioni urbanistiche non rispettate, al verde pubblico, cui fossero affidate risorse e competenze, per consentirci di comunicare. Altro che recinzioni al Parco del Castello. Mandiamo i vigili urbani che non devono più fare multe alle auto, a sanzionare chiunque getti una sigaretta a terra, o abbia costruito un capanno recintato con la siepe, vicino al teatro di Amiternum sulla strada per Pizzoli. Le persone, quando si incontrano, comunicano. Non quando sono in automobile e si odiano, o dentro un centro commerciale dove, esercitano la loro funzionalità astratta comprando tutto quello di cui hanno, forse, desiderio, ma magari non bisogno.

Ci vorrebbe un assessore che mettesse in comunicazione col resto della città i migranti che vivono a Lucoli e quelli che vivono a Tornimparte, o ad Arischia, o nei Progetti C.A.S.E., per fare in modo che, tra loro, ci sia il prossimo estremo dell’Aquila rugby, e non il prossimo candidato a far esplodere un asilo in qualche parte del mondo, isole comprese.

Ci vorrebbe un rabdomante che scoprisse le vie camminate dai quindicenni, e su queste offrisse loro occasioni non di solo consumo. Ma di sport, di spettacolo, di invenzione, di riflessione, di scuotimento del cerebro. Di comunicazione. Di ascolto.

Il problema, non mi pare, concettualmente, come far rivivere il Centro Storico, e farci tornare attività pubbliche e private e cittadini. Se si continua così, il Centro sarà ricostruito. Nel giro di venti anni, realisticamente. Ci saranno i soldi, forse, e, forse, tutto sarà fatto secondo Legge. E, magari, quando si sarà ricostruito tutto il Centro, tutta la sua arte, e tutta la sua bellezza, e tutti i suoi splendidi palazzi nuovi che sembrano cappelle cimiteriali, come il palazzo dell’Agenzia delle Entrate, o quello posto alle spalle del palazzo delle Poste, e, forse, sede dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si scongelerà il signor Cavaliere dall’ibernazione per farlo partecipare all’inaugurazione, tutta in una volta da porta Barete, fino a Porta Napoli.

Il problema non mi pare solo di servizi, o di parcheggi o di negozi, o di sottoservizi e reti immateriali e video sorveglianza.

E’ tutto vero, è tutto giusto. Tutto questo è un problema, e tutto questo va affrontato. Va sconfitta la rendita, se ce ne fosse il coraggio.

Ma il problema vero, è che di sei città, bisognerebbe farne una sola.

Avere il coraggio di pensare che il bello, deve stare ad Arischia e ad Assergi. Che lo spazio per i giovani, e per le loro creazioni artistiche, cinematografiche, artigianali, o contadine, deve stare a Coppito e in Piazzetta Chiarino. Avere il coraggio di sconfiggere il potere dell’abusivismo edilizio e del palazzinaro che si costruisce da solo la licenza edilizia.

Ma, i miei pensieri rasoterra, arrivano tardi. Quanti ne ho, di pensieri. Talmente tanti da usare quasi tutte le parole, più e più volte.

Il bimbo va già in prima elementare, e un mese d’affitto in un palazzo appena ristrutturato in corso Vittorio Emanuele, viaggia verso i cinquemila euro al mese. E di certo non si ammortizza, col passeggio che non c’è. Allora io domando.

Facciamo che lo slogan aquilano del “come prima, più di prima, meglio di prima, nello stesso posto di prima”, funzioni per davvero. E tra venti anni in Centro Storico sono tornati tutti, ma proprio tutti quelli che c’erano e anche qualcuno in più.

Io avrò settanta anni, se sarò ancora vivo, e andrò a cercare i miei pensieri rasoterra nell’altra città, quella lasciata vuota. Dei centri commerciali e degli scatoloni prefabbricati. Dei container superstiti. Avrò enormi spazi nei nuclei industriali. Vuoti. Dove realizzare magnifici servizi fotografici post, post e ancora post industrial-commerciali.

La città di oggi destinata a diventare fantasma. Ad essere la zavorra di una Chiesa di San Bernardino totalmente risplendente, nella facciata, nella cupola, e nel convento e nelle sale attigue.

La città vuota parente della città fatiscente del Progetto C.A.S.E. tra vent’anni.

L’economia, quando diventa storia, non si comporta secondo astratta funzionalità. Ma segue sue strade, qualcuna prevedibile, più o meno. E’ la politica, come governo dell’esistente e immaginazione del futuro che può essere quasi magica. Purché non sia solo destino personale di un numero ristretto di ottimati.

Io penso oggi alla città vuota di domani.

Perché, il bambino che a settembre andrà in prima elementare, quest’anno, tra vent’anni, di anni, ne avrà ventisei. Sarà un giovane splendido nel pieno delle sue forze, e io vorrei che ringraziasse i suoi padri e i suoi nonni, e non che li maledisse.

Sì, lo so. Tra vent’anni non conta più chi si deve votare o no. Magari sarò pure morto.

Ma, cari tutti e care tutte, se continuate a pensare che L’Aquila è solo il suo Centro Storico, finirete col ricostruire un tacchino.

E io che non mangio carne, di un tacchino, me ne fotto proprio, che è pure brutto, come uccello.

di Luigi Fiammata



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