Quando i personaggi si dimostrano più veri delle persone reali
In un teatro non bene identificato e, del resto, poco importa di quale teatro, in particolare, si tratti, una compagnia, anche qui non ben identificata, si sta preparando a provare la commedia di Luigi Pirandello intitolata “Il giuoco delle parti”. Sul palcoscenico vanno in scena le piccole scenette della vita quotidiana di una compagnia di teatro, chi arriva in ritardo, chi deve ripassare le parti che faticano ad entrargli in testa, chi, con sufficienza, si pone a confronto con gli componenti della compagnia, e così via. Quando, dopo tutti gli intoppi, piccoli e grandi, la compagnia è ormai pronta a cominciare, anzi comincia, la prova della commedia pirandelliana ecco che sulla scena compaiono sei personaggi che paiono, o forse sono, sbucati dal nulla. Alla normale, quasi scontata direi, domanda del capocomico su chi siano, quello che tra i sei veste i panni del Padre rivela che essi sono personaggi. Sì, personaggi, “vivi e reali” ai quali l’autore, dopo aver dato loro la vita ideandoli, non ha però poi avuto il coraggio o la forza di permetter loro di mettere in scena il loro dramma personale.
Immaginatevi la sorpresa, l’ilarità in certi casi, della compagnia di attori a vedersi piombare lì, in scena, così, all’improvviso, quei sei strani figuri che dicono, anzi pretendono, di essere dei personaggi e di essere più veri e reali degli attori stessi. È infatti sempre il Padre, ad un certo punto, che, rivolto al capocomico poi assurto al rango di autore, dichiara che sì, è vero, loro, in quanto personaggi, creati da un autore, con un’esistenza prefissata, una vita stabilita e scritta sulla carta, sono più reali di qualunque persona reale, financo il loro autore, che gode in una vita che può cangiare di giorno in giorno.
I sei personaggi riescono ad intrigare con la propria vicenda il capocomico il quale decide di accettare il ruolo di loro autore e mette in scena, o meglio permette loro di mettere in scena, il dramma del quale essi sono portatori. E la storia comincia a dipanarsi e, nel corso del primo atto, fa la sua comparsa, una comparsa breve e fugace il settimo dei sei personaggi, quello tra loro che non è in cerca di un autore ma che è il motore di tutto il primo atto: Madama Pace, una donna che, dietro la rispettabile facciata di un negozietto di sartoria, nasconde, nel retrobottega, la realtà di una “casa equivoca”. Qui, nella stanza ubicata nel retrobottega del negozio di Madame Pace, si compie l’incontro, dopo tanti anni tra il Padre e la Figliastra; incontro che, per poco, proprio per pochissimo, non sfocia in qualcosa di molto più intimo. Dopo questo incontro il Padre accetta di riportare sotto il proprio tetto la Figliastra, la Madre, colei che fu sua moglie, e i due figlioletti nati anch’essi dal secondo matrimonio di lei. Questo improvviso piombare in casa di quei quattro “nuovi venuti” provoca la ribellione del Figlio Legittimo il quale, con sdegno, si rifiuta di insegnare la propria parte fino a che, costretto, non rivela quello a cui gli è capitato di assistere, e quello di cui è stato protagonista nel giardino della casa; il ritrovamento del corpo della sorellina annegata e il seguente suicidio del fratellino. Dopo un vibrante battibecco, per così dire, tra il Padre e colui che, nella finzione scenica dovrebbe vestirne i panni, nei quali il secondo, non credendo alla morte del ragazzino, urla “Finzione!” ed il Padre che di rimando urla “Ma quale finzione? Realtà!” la scena si chiude con i sei personaggi, o meglio quelli che dei sei personaggi sopravvivono, lasciano la scena e il capocomico che, dopo aver constatato che oramai si è fatto tardi per le prove, dice alla compagnia di tornare in serata e, dopo aver ordinato il “Buio in sala!”, lascia a sua volta il teatro. Sulla scena, ormai buia, il sipario si riapre sui sei personaggi, in ombra, che tornano, tutti, un’ultima volta alla ribalta per poi ritirarsi, a loro volta, dalla scena.