Frammento di self portrait, studio luci per ??? - Copyright 2011 Roberto Panciatici
Semplicità! Che parola, cazzo! Mi ci sono scontrato già diverse volte (qui e qui) e tutt’ora non ho ben capito la direzione giusta da seguire. Ma semplificare, alla fine, che vuol dire?
Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di “cose”. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più. Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima: come si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura? Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’anima delle cose e comunicarla nella sua essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode. La semplificazione è il segno dell’intelligenza. Come afferma un antico detto cinese: “Quello che non si può dire in poche parole, non si può dire neanche in molte. [Bruno Munari]
Devo ringraziare un’amica per questo, ancor prima che Munari. Sì, ché non l’avrei conosciuto senza di lei. Ignorante? Certo, chi lo nega. Anzi, ben venga! Sono sempre felice quando un confronto mi arricchisce, ed è proprio quando ci arricchisce che un “confronto” è degno di essere chiamato tale. E quel confronto, all’epoca, per me fu importante. Molto importante.
Ho riflettuto tanto su quest’aspetto, e fatto anche tante prove. Poi finalmente ho capito che dovevo prima lavorare su me stesso. Snellire i miei di meccanismi, non quelli dei miei prodotti.
Ero io, quello complicato. E il resto? Un riflesso. Solo un riflesso.
Io do alla fotografia un senso molto profondo. Non è solo questione di tecnica, o d’occhio (sono entrambi importanti, ovvio!), è questione di mettere in gioco qualcosa di noi così da poter raccontare qualcosa agli altri, degli altri, o per gli altri. Un approccio romantico. Forse. Passionale. Sì, ma solo per certi aspetti. Credo che la fotografia, esattamente come tutte le altre forme d’espressione, sia connessa alla vita, ed esattamente come la vita vada quindi esplorata. Vissuta. Capita. Offesa. E salvata. E come si fa? Beh, al momento ho trovato solo questa risposta: boh!
Lavorare sulle sovrastrutture. Ecco il mio primo passo. Iniziare a illuminare i miei angoli bui. Conoscerli. Iniziare a smantellare anni e anni di chiusure, di stanze segrete, di false convinzioni, iniziare a mettermi in gioco in prima persona, a espormi. Sempre più me stesso. Sempre più trasparente. Sempre più fragile. Sempre più forte. In poche parole iniziare ad aprirmi alla vita.
Tempo fa ho conosciuto una donna che mi ha insegnato un bel po’ di cose sulla fotografia. Una di quelle cose, probabilmente la più importante, non la troverò, almeno per ora, in nessun libro di testo. La potrei riassumere, più o meno, così: è tutta una questione d’atteggiamento. Di sentire. Di appassionarsi. Di come ci apriamo alla vita. Tutto il resto, ovvero quello che mostriamo nei nostri scatti, è solo un riflesso.
Se questo è vero, e io credo che lo sia, è importante provare a percepire il mondo attraverso i nostri sensi. Iniziare a vivere le situazioni in prima persona. Non aver paura di farsi coinvolgere, non aver paura di tentare. Di osare anche. Provare a filtrare la realtà lasciando che ci attraversi, che ci arricchisca, o ci ferisca, e aggiungerci un pizzico di noi. Ciò che uscirà non sarà forse il più grande dei capolavori, ma avrà dentro di sé un’anima nuova. La nostra.
Enjoy yourself!