MASSIMO GRAMELLINI
Caro capitan Valentino,
torno a scriverti dopo quattro anni (Toro-Mantova, ricordi?) e dopo una serata balorda vissuta davanti alla tv: in piedi e in solitudine, le mani appoggiate sopra la nostra porta, ogni volta che veniva inquadrata dalla regia. Con l'aiuto del formidabile portiere Morello, sono riuscito a deviare una punizione maligna sulla traversa. Ma nulla ho potuto contro la scelleratezza del cincischiante Gasbarroni, che si è fatto soffiare una palla che forse voleva portarsi a cena, favorendo il contropiede di un figliolo assai poco prodigo (con noi) del vivaio granata, Possanzini.
Ho abitato la finale in piena solitudine perché volevo ricostruire le medesime condizioni della sfida vinta domenica scorsa contro il Sassuolo: stesso menu ospedaliero (bistecca di pollo e purea per non appesantirmi durante il match), stessa maglietta granata autografata da Zaccarelli e Salvadori. A non essere la stessa, purtroppo, era la formazione del Toro, che Colantuono ha spiumato di tutte le ali per esaltare gli uzzoli del suo cocco Gasbarroni, libero di perdere palla all'infinito dietro i due attaccanti, di cui uno, el pescador Salgado, è affogato quasi subito, e l'altro, Bianchi, sembrava essersi squalificato da solo. Il secondo tempo è stato tutto un ronzare senza pungere, fino al rigore di Ogbonna su Possanzini, che si poteva dare o non dare e che naturalmente è stato dato, per consentire anche a Caracciolo di sventolarci in faccia la sua gioia. Il Toro d'inizio stagione ne avrebbe presi altri tre, invece questi ragazzi assatanati sono tornati sotto e, una folata dopo l'altra, hanno ritrovato col puntiglioso Arma il gol scippato nella partita d'andata. Troppo bello. Troppo tardi. Ci siamo arresi solo dopo l'ultimo graffio di Gasbarroni, l'ultimo rilancio disperato di Morello.
Restiamo all'inferno e a questo punto immagino vorrai sapere come avevamo fatto a precipitarci di nuovo, durante i quattro anni nei quali non ti ho dato nostre notizie. Potrei appellarmi alla privacy, invece sarò sincero: dopo aver sfiorato la Champions più volte, abbiamo accolto l'invito dei tanti amici di provincia che ci chiedevano di tornare a insegnare calcio sui campi della B... Non l'hai bevuta, Capitano? Nonostante la vergogna, te la conterò giusta, allora: quella comunità di cuori granata che le sventure del fallimento avevano ricompattato, si è disgregata ai primi bagliori di benessere. Ubriacato dal successo immediato, Cairo si è creduto un padreterno e ha fatto tutte le scelte sbagliate, ingaggiando cognomi invece che uomini. La società e la squadra hanno smesso di assomigliare ai tifosi, gettandoci prima nello sconforto e poi nel più orribile degli stati d'animo: la disaffezione. Difficile riconoscersi in calciatori senza fuoco né cuore, in allenatori senza idee che non fossero i lanci lunghi per la spizzicata ipotetica del centravanti, in dirigenti che si riempivano la bocca di Toro senza conoscerne la storia e trattandolo come se fosse un qualunque altro club.
Così, dopo due salvezze tribolate, l'estate scorsa ci siamo ritrovati all'inferno, stavolta senza neanche l'abbigliamento adatto. Alla fine del girone d'andata la radiografia era la seguente: squadra slombata e sull'orlo della C, tifoseria depressa e furibonda, presidente spaventato e abbandonato da tutti. Solo una pattuglia di ottimisti, a cui a giorni alterni mi iscrivevo anch'io, restava aggrappata alle leggi ferree della statistica: era impossibile che Cairo continuasse a sbagliare ogni mossa. Prima o poi ne avrebbe azzeccata una pure lui. E l'ha azzeccata, Capitano. Nell'ora più buia della notte, come capita spesso. Ha trovato l'uomo giusto e gli ha consegnato le chiavi della baracca. Si chiama Gianluca Petrachi. Una faccia che, se la incontrassi in una strada poco illuminata, persino tu cercheresti di appiattirti contro il muro. Capisce di calcio e di Toro, pur avendoci giocato poco e male in gioventù (e in cambio di Bobo Vieri, per giunta). Con zero euro a disposizione, una discreta sommetta, in meno di tre settimane ha sbolognato le mele marce e ingaggiato dodici gladiatori, giovani in cerca di fortuna e vecchi in cerca di rivalsa, inserendo nello spogliatoio un team manager con gli occhi del duro e il cuore del giusto: Giacomo Ferri, detto "Picchia per noi", non so se rendo l'idea. Era il Toro brutto sporco e cattivo (ma buono) che per anni avevamo chiesto. Un po' alla volta, come amanti scottati ma mai spenti, ce ne siamo innamorati. E mercoledì notte per la finale di andata dei playoff eravamo di nuovo tutti lì, un milione davanti alla tv e ventimila fortunati allo stadio.
Con la maglia granata sotto la camicia granata per non dare nell'occhio, sono scomparso sugli spalti fra amici fidati. Ma al secondo minuto mi divincolavo già come un tarantolato: un energumeno aveva preso a cazzotti Bianchi ed era espulsione diretta, era rigore, mentre l'arbitro non ha fischiato né l'una né l'altro. Il gol non veniva e gli amici scrutavano la panchina per vedere quali fenomeni potessero saltarne fuori. "Considerato che Messi e Milito li abbiamo spediti ai Mondiali, non ci resta che Arma", ho scherzato. E poi, guardando il figlio di Bossi in tribuna con la bandiera del Brescia: "Vi immaginate la goduria filosofica, se entrasse l'operaio marocchino e segnasse all'ultimo minuto davanti alla Trota…" "Esci dal mondo delle favole: Arma non ha fatto un gol in tutta la stagione!", mi sfottevano loro. Ma poi Arma è entrato, all'ultimo minuto ha fatto gol e di colpo mi sono ritrovato ragazzino dopo un missile terra aria di Pupi. Esultavo con tale vigore che gli amici hanno impiegato un minuto a spiegarmi che l'arbitro lo aveva annullato: per una strattonatina alla maglia che non sanzionerebbero neanche in una partita fra bambole. Non era finita, perchè il profeta sgasato del calcio champagne, lo sportivissimo Maifredi, segnalava all'arbitro la presunta bestemmia di Bianchi, reo di aver commentato con uno "zio cane" il pestaggio sistematico a cui veniva sottoposto. Eppure fra i comandamenti, oltre a "non nominare il nome di Dio invano", mi pare ce ne sia un altro che dice: "Non rubare". Nemmeno l'assoluzione in secondo grado del presunto bestemmiatore riusciva a togliermi di dosso la sensazione di aver subito un sopruso.
Il cerchio finalmente si chiudeva. Squadra coraggiosa, presidente redento, tifoseria compatta, destino avverso. Eravamo di nuovo noi, un blocco unito contro tutto e tutti. Serviva l'ultima magia, non è arrivata. Pazienza. Resteremo in B, bisognerà vendere Bianchi e forse non solo lui, ma arriveranno altri D'Ambrosio, altri Garofalo, altri Pestrin. Per la prima volta da quattro anni, vedo un futuro dietro le sbarre della nostra delusione. Su la testa, fratelli. Da domani si comincia a ritornare in serie A. Questo Toro che ha fatto pace con gli dei granata può persino concedersi il lusso di temprarsi ancora un anno fra le fiamme dell'inferno. E se ti sembra una bestemmia, squalificami pure, Capitano.