Una mattina mi svegliai bagnato di sudore dalla testa ai piedi,
le lenzuola tutte intrise. Avevo fatto un incubo spaventoso,
il peggiore della mia vita: avevo sognato di avere trent’anni. Ne avevo ventuno.
(Massimo Fini, Ragazzo, Storia di una vecchiaia, 2007)
di Massimiliano Sardina
Nulla è destinato a durare. Umanità e divinità riportano la medesima data di scadenza. Tutto ciò che si spaccia per eterno non è che un’iniezione di botox nello zigomo sfuggente del tempo. L’immanenza non è una condizione, non può esserlo in termini fisici, poiché tutto è ciclico e transitorio. Le vanitas cinque-seicentesche (con i caratteristici teschietti abbinati ai fiori avvizziti) riflettono bene quel sottinteso di caducità che investe e traveste tutte le cose, quel memento mori che pedina come un’ombra il cammino dell’esistenza. Perché si invecchia? Perché dobbiamo invecchiare? Che cos’è la vecchiaia? È come se ogni forma di vita seguisse la traiettoria obbligata di un cerchio, dal punto di partenza a quello di arrivo: così come si viene, così si va. È il ciclo, quel passaggio del testimone che consente a una nuova vita di fiorire. Tutto si compie tra l’acerbo e il marcescente, tra l’impubere e il senile, una trasformazione lenta (ma impietosa) dalla culla dell’infante al capezzale del morente. Quel che lavora segretamente nella carne, negli organi interni, nella struttura ossea si riflette inevitabilmente sulla pelle, patina di confine tra uomo e natura. Tra la giovinezza e la morte c’è la senectus. Ladra del vigore e della bellezza, penultima usurpatrice, non guarda in faccia a nessuno. Talvolta sa essere infinitamente paziente, quasi invisibile, ma in silenzio opera nell’ombra. È metodica, meticolosa, sa far bene il suo mestiere, e dove passa lascia il segno. Può ritardare, farsi desiderare, ma alla fine arriva sempre puntuale. È offensiva, invadente, invasiva e fin troppo evidente. E niente trucco, lei non si trucca, è tutta naturale. Se non altro è schietta e sincera. È esattamente quel che appare. Senectus è una sterminata terra di mezzo, una spaziosissima anticamera, un punto d’osservazione assolutamente privilegiato, un’opportunità. Senectus non è una situazione ma una condizione, un anelito d’evasione, il progetto di un ponte colossale e pericolante che corre dritto fino alla più remota domenica di primavera. È quel che resta della pelle sulla pelle, è cipria labile, ma ci prepara a un mistero più grande di quello della vita. Non ha senso parlare della vecchiaia e della morte in termini perentoriamente negativi, perché senza vecchiaia e morte va da sé che non ci sarebbero nemmeno giovinezza e vita: è la discordia concors, la legge degli estremi che governa l’esistenza, il decline and fall che reca in sé il germe della resurrezione.
Nel lungo corso della storia dell’uomo il concetto di vecchiaia ha subito profonde modificazioni. La vecchiaia, nei grandi numeri, è una conquista delle società più recenti, e proprio in questi ultimi decenni l’aspettativa di vita ha registrato una significativa impennata. Se guardiamo a homo sapiens, all’uomo della Grecia arcaica o all’uomo medievale appuriamo un’eccezionalità della vecchiaia, un traguardo riservato a pochi fortunati (si stima infatti che homo sapiens di rado tagliasse la soglia dei trent’anni, e i primi nonni fecero la loro comparsa solo trentamila anni fa). <<Il sogno dell’uomo di non invecchiare è antichissimo, – scrive Hartwin Brandt in Storia della vecchiaia – ma è un sogno che ancora ai nostri giorni non può esser realizzato, nonostante tutte le promesse dell’ingegneria genetica e della moderna medicina.>> Siamo destinati a durare di più, a sopravvivere di più, e in condizioni di salute si spera più tollerabili, ma alla lunga nulla potrà sottrarci all’incanutimento (il progresso potrà garantirci solo ulteriori piccoli posticipi). Il solo antidoto alla senescenza di cui disponiamo è il mito dell’eterna giovinezza, ossia l’immortalità infusa nello “iuvenis venusto mai vetusto”. Esemplare a riguardo è la figura del bellissimo Ganimede (amato da Zeus) che, per privilegio divino, poté sottrarsi alla vecchiaia e alla morte. Titone invece, contraltare di Ganimede, godette sì dell’immortalità ma non dell’eterna giovinezza. Il mito incrociato di Ganimede e Titone riflette bene l’aspirazione più atavica dell’essere umano, tenacemente aggrappato alla fuggevolezza della vita e preda, suo malgrado, dello scorrere inesorabile del tempo. L’invenzione della divinità va a colmare esattamente questo vuoto, sostituisce l’uomo “perdurante” all’uomo “a tempo”. Il trompe-l’oeil della vita eterna schiude una finestra sul muro della finitezza, indica una via di fuga, concede una proroga, mantiene acceso il defibrillatore e opera il necro-lifting. Nei distinti regni naturali il processo d’invecchiamento interviene e si compie in ossequio a uno schema pressoché invariabile: l’acerbo matura e poi marcisce. Al turgido splendore della fase intermedia segue una lenta, graduale opacizzazione: il passaggio dalla luce al buio (e dal buio alla luce) non è mai repentino. Non scegliamo di invecchiare, così come non scegliamo di nascere.
La vecchiaia, al di là d’ogni bonaria asserzione consolatoria, va solo subita, sopportata, e quanto più contrastata. È un processo naturale sì, anzi il più naturale di tutti i processi, ma questo non la affranca dall’alveo delle malattie incurabili. L’invecchiamento cellulare è al tempo stesso un processo naturale e una malattia. L’iper-edonismo delle società contemporanee guarda alla vecchiaia con profondo imbarazzo, un malcelato disagio che altro non nasconde se non puro terrore; tutte le ossessioni estetiche delle pratiche edonistiche – dalla blanda cosmetica agli eccessi della plastic-surgery – non sono che rituali esorcistici, fallimentari e ingenui stratagemmi per scongiurare la fine. Mistero terrificante e sublime la senectus incombe su ogni giovinezza e, mimetica predatrice, sferra il suo agguato dall’interno, sottopelle. Premio di consolazione delle religioni rivelate la promessa di un’eternità ha stemperato la definitività della senectus rendendo la vita (del fedele) meno dolorosa e incomprensibile. L’ultraterrena second life agisce alla stregua di una crema miracolosa capace di lenire tutte le rughe (comprese quelle dell’espressione), antidoto estremo all’incartapecorimento. In natura però non c’è pietra che possa scongiurare lo sbrego, la crepa, la scalfittura (tanto il gesso quanto il porfido vanno incontro al medesimo processo di sgretolamento). L’istinto di sopravvivenza la fa da padrone, e la vita sugge ogni risorsa possibile pur di allontanare lo spettro del deperimento. La morte? Meglio rimandarla sempre a domani, e a domani, e a domani. Meglio rinviarla, sì, posticiparla, eluderla. Così per la vecchiaia, nefasta messaggera. Il senex ausculta quel rullo di tamburi che annuncia e precede il gran finale. Per comprendere cosa sia realmente la senectus bisogna innanzitutto spogliarsi d’ogni velleità antropocentrica. Ne Il gene egoista Richard Dawkins avanza l’ipotesi (assai convincente e sempre più condivisa) che siano i geni a occupare le postazioni di comando nella stanza dei bottoni. In altre parole, noi saremmo agiti dai geni, che ci tengono in vita quel tanto che basta per garantirgli una potenziale riproduzione. Osservata dal punto di vista genetico la natura, soprattutto quella umana, perde ogni connotazione romantica. Per i geni, stando alla teoria dawkinsiana, l’essere vivente non è che un serbatoio, un veicolo, un tramite, un medium. Assolto l’atto riproduttivo (assicuratisi percentualmente la potenziale avvenuta riproduzione) i geni si disinteressano dando il la al processo d’invecchiamento.
La vecchiaia – ma sarebbe meglio dire la longevità – è una conquista relativamente recente. Oggi (nei grandi numeri, s’intende) si vive più a lungo, si sopravvive di più, si tagliano traguardi un tempo assolutamente impensabili; le più ottimistiche previsioni vedono allungarsi progressivamente l’aspettativa di vita, complice quel benessere diffuso e crescente che si vuole a tutti i costi far coincidere con il futuro più imminente. L’aspettativa di vita si è amplificata considerevolmente soprattutto negli ultimi decenni, e attualmente, mentre scriviamo questo articolo, gli ultracentenari italiani sono all’incirca 8000. La questione della longevità, però, non può essere affrontata in modo univoco, poiché il problema non è semplicemente arrivare a invecchiare ma, cosa ben diversa, invecchiare bene. Se alla longevità non si accompagna un certo benessere (fisico e mentale) l’invecchiamento resta un processo gravoso. L’aumento progressivo della durata della vita si è verificato grazie a una concomitanza di fattori: la scomparsa di molte malattie (grazie ai vaccini, alle cure antibiotiche e alle migliori condizioni igieniche), la maggiore disponibilità e varietà alimentare e, più in generale, l’adozione di comportamenti più consapevoli e abitudini più sane. Quanto a longevità, almeno in quello (visto lo squallore che ci contraddistingue a livello internazionale), l’Italia si difende bene; le regioni con più alta aspettativa sono il Trentino Alto Adige per le donne (85 anni circa) e le Marche per gli uomini (80 anni circa), la popolazione ligure è la più centenaria mentre la bandiera nera spetta alla Campania (non a caso ribattezzata “la terra dei fuochi”). La più alta concentrazione di ultracentenari (pari al 20% della popolazione) la troviamo in Giappone, nell’isola di Okinawa. La longevità, certo favorita da fattori genetici, è speculare a uno stile di vita sobrio, dinamico e misurato. Nel recente saggio Longevità Umberto Veronesi, oncologo e pioniere della chirurgia conservativa, insiste molto sull’importanza di mantenere attivi i comportamenti culturali, la curiosità, la creatività, la ricettività agli stimoli. La longevità non elude la senescenza ma certo ne riduce notevolmente l’impatto.
Una domanda su tutte: perché l’essere vivente deve invecchiare (e morire)? La ricerca medica potrà un giorno bloccare l’invecchiamento cellulare? Si tratta di un processo reversibile? Le staminali sembrano indicare un nuovo orizzonte, ma siamo ancora molto molto lontani (al momento la scienza non è in grado nemmeno di far ricrescere i capelli a un calvo). Le teorie che tentano di spiegare la senectus sono la “teoria dell’invecchiamento programmato” e la “teoria dell’accumulo dei danni cellulari”. Il segreto è criptato nella doppia elica dell’acido desossiribonucleico (il misteriosissimo DNA). <<I geni – sintetizza bene Veronesi – sono la mappa del comportamento delle cellule, contengono le informazioni dettagliate sulle nostre caratteristiche fisiche (e mentali), stimolano oppure bloccano meccanismi e processi di salute e malattia, suscitano comportamenti e modificazioni.>> Nella “teoria dell’invecchiamento programmato” prevale la tesi fatalista: il destino è scritto nelle cellule; nella “teoria dell’accumulo di danni cellulari” entrano in gioco fattori casuali e imprevedibili. Vero è che nel nostro corpo è installato un software di ripristino, un vero e proprio programma di risanamento (basti pensare a come si rimargina una ferita). A certi danni il nostro meccanico di fiducia pone tempestivamente rimedio, ma ad altri – forse più subdoli o meno facili da individuare per tempo – a quanto pare no. Dall’accumulo di questi danni, secondo la suddetta teoria, deriverebbero per l’appunto le malattie e l’invecchiamento. Acerrimi nemici delle cellule sono i famosi “radicali liberi”, schegge impazzite che gradualmente danneggiano gli equilibri dell’organismo. Sappiamo molto di quel che avviene dentro di noi, ma non abbastanza. Certi perché ci sfuggono, e tante verità che diamo per assodate in realtà sono solo arbitrarie deduzioni, nient’altro che ipotesi.
Perché invecchiamo? La domanda si ripropone come un mantra. Se le cellule potessero parlare ce la canterebbero tutta. Non è che siano mute, anzi sono fin troppo chiassose, ma parlano lingue sconosciute, forse dialetti stretti, e così velocemente e contemporaneamente che proprio non si riesce a stargli dietro. Le attuali conoscenze però ci consentono di distinguere le cellule buone da quelle cattive. Secondo il biologo Leonard Hayflick ogni singola cellula è in grado di replicarsi un numero determinato di volte, e solo le cellule cattive (tumorali) hanno la facoltà di riprodursi all’infinito (nessun meccanismo interno ne limita la proliferazione). Nel già citato Longevità Umberto Veronesi elenca sinteticamente tutte le teorie che hanno tentato e tuttora tentano di spiegare i processi d’invecchiamento: teoria dei telomeri, teoria della regolazione genica, teoria dell’usura, teoria ormonale, teoria immunologica… oggi, molto prudentemente, si guarda all’invecchiamento quale fenomeno multifattoriale: più elementi (genetici, memici, ambientali…) concorrono a determinare la progressione fisica verso la vecchiaia. Il processo d’invecchiamento innesca un rallentamento dell’attività metabolica e un accumulo infiammatorio (questi aspetti variano da organo a organo). Lo stato infiammatorio non è altro che la reazione del nostro corpo di fronte a una qualsivoglia minaccia o pericolo (alla rilevazione del pericolo corrisponde la risposta immediata, il contrattacco, del sistema immunitario). Compito dell’infiammazione è quello di uccidere l’agente maligno e di riparare poi i tessuti danneggiati. Talvolta accade però che qualcosa non vada per il verso giusto, e l’infiammazione si cronicizza gravemente innescando a sua volta altre patologie (e pare che anche il cancro abbia in un qualche modo a che fare con le infiammazioni cronicizzate). Nel senex il sistema immunitario non ha la stessa prontezza di quello di un giovane, e le infezioni attecchiscono con maggiore aggressività; inoltre, nel sistema immunitario del senex questo processo stimola un’iperproduzione di cosiddetti “auto-anticorpi”, armi di difesa che (come in un gioco di specchi) si convertono in un “auto-attacco”. La biochimica dell’invecchiamento non opera per vie lineari, e non c’è una regola universale che possa essere isolata o eletta a norma. È ormai convinzione diffusa che il DNA interagisca pressoché ininterrottamente con ambienti e comportamenti (ha insieme caratteri fissi e caratteri variabili). In molti casi, un corretto stile di vita può fare significativamente la differenza. <<Non sempre l’idea di vivere a lungo procura gioia.>> scrive Veronesi <<Esistono timori che si affacciano subdoli quando si pensa alla vecchiaia, alle età della vita oltre gli ottant’anni. Sono timori inevitabili, si esorcizzano o rimandano, oppure si prova ad addomesticarne la portata dedicandosi ad altro perché rendono il desiderio di essere longevi un po’ meno ardente, tutto sommato meno allettante. Le conseguenze della vecchiaia, soprattutto il decadimento mentale o l’inabilità fisica e il baratro della morte, sono una compagnia psicologica scomoda ma inevitabile.>> Il senex contempla “la profezia del corpo che s’inoltra”, per usare una splendida espressione di Erri De Luca. Senectus ipsa est morbus: la vecchiaia è in sé una malattia, scriveva Terenzio; una malattia insanabilis, precisava Seneca. In Ragazzo (Marsilio, 2007) il giornalista e scrittore Massimo Fini stila un’analisi cruda e spietata del rapporto giovinezza-vecchiaia, un’analisi che prende le distanze da tanta trattatistica promulgatrice di una concezione consolatoria della senectus (dal De Senectute di Cicerone all’Elogio della tarda età di Piero Ottone, definiti <<un’orgia di retorica, di ipocrisie e di rimozioni>>). Fini si limita a constatare la condizione senile, senza giustificarla o edulcorarla: <<I Latini, che erano meno ipocriti di noi, più concreti e meno abituati a mentirsi addosso, parlano di atra senectus, cupa vecchiaia. E atra vuol dire anche funesta, triste, fosca, oscura, nera. E buia. La vecchiaia è soprattutto buia (…) L’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita. Esistenziale, sentimentale, professionale. Manca il tempo. Manca il futuro. Manca la speranza. Sorella Morte ha già alzato la sua falce.>> La riflessione di Fini investe il tempo residuo, il futuro che collima col Caso (e che <<più si va avanti con l’età più è probabile che sia un Caso maligno>>), la velocità con cui la vita si consuma, la diversa percezione che si ha dello spazio-tempo (<<Quanti secoli ci abbiamo messo per uscire dall’infanzia?>>). In letteratura – dai poemi omerici della Grecia arcaica ai recenti “romanzi senili” di Paul Auster Diario d’inverno e Notizie dall’interno – la senectus è stata sviscerata nelle due opposte chiavi (positiva-negativa) e in tutte le possibili sfumature di mezzo. Tra le testimonianze più recenti quella di Massimo Fini ci è sembrata particolarmente indicativa per l’appunto sul versante “negativo”: <<Ora la vecchiaia è qui. Mi circonda. Mi assedia.>> Una siffatta visione della vecchiaia lascia spazio solamente all’orrore, all’irrimediabilità della perdita, alla temibile incognita della morte. Così tratteggiata la senectus è solo una giovinezza rovesciata, e non c’è saggezza o serena accettazione che tengano. <<Guardo i ragazzi e mi coglie un brivido. In un gioco di controspecchi mi sembra a volte che mi guardino con lo stesso stupore venato di tenerezza e di pena con cui io alla loro età guardavo gli uomini della mia (…) La vecchiaia ti fissa in sé stessa e tutto ciò che sei stato prima non conta, è come se non fosse mai esistito.>> Spogliata di ogni romanticismo e d’ogni altro anelito una vecchiaia così concepita è un’età senza illusioni e senza sogni, solo una lenta e gravosa attesa della morte. Cosa c’è di positivo e di vantaggioso nella vecchiaia? Nulla, in una visione come quella di Fini, nemmeno il bagaglio dei ricordi e le reminescenze delle soddisfazioni godute (il senex si muove in un mondo di ombre: le ombre degli amici morti).
Il senex che subisce l’atra senectus non ha i tratti fieri e dignitosi del Crisippo ellenico, al contrario è sopraffatto da se stesso e dalla condanna che sente incombere sempre più pesantemente sul suo destino, è attanagliato dalla malinconia, si muove in luoghi e paesaggi trasformati e adulterati che stenta a riconoscere, guarda con sospetto tutti gli oggetti e i beni materiali che sopravvivranno alla sua dipartita, e convive malvolentieri con la più subdola delle paure. Questo senex non è da solo. Al suo fianco cammina un figuro altrettanto attempato e curvo, ma con una luce diversa in fondo agli occhi. È il senex trionfante, felice di trovarsi esattamente dov’è, senza rimpianti, lamentazioni o rimorsi, senza insulti di blefaroplastiche intorno all’espressione, senza rigurgiti di giovinezze… forse giusto un pizzico di nostalgia, ma quella non guasta mai.
All’ineluttabilità, salvo improbabili colpi di scena sul gran finale, mal si sposano le code e gli strascichi: sì perché tutto quel che compare prima o poi scompare, e se restano qua e là delle tracce è solo per buona creanza. E poi, diciamocelo, perché mai si dovrebbe durare più del dovuto? A beneficio di chi e di che cosa? Tra l’eternità e la noia, alla fine, chi la spunterebbe?
Massimiliano Sardina
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