La scrittura diventa così strumento d’accusa, arma che vorrebbe tagliare e squarciare – con violenza – una mentalità che si perde con estrema facilità nel disinteresse politico, nell’indifferenza sociale, seguendo il modello oggi imposto dai media e dallo stesso governo. La narrazione è allora bisturi che viviseziona con precisione chirurgica i meandri di una società che sembra in caduta libera. «Oggi non posso che raccontare questo – scrive Ferrucci – il mio senso di repulsione, la mia rabbia, il mio sconcerto, la mia indignazione, la mia stanchezza. Provare a raccontare una storia che – suo malgrado – racconti questo e – in qualche modo – vi si opponga».
Il libro esce in edizione bilingue in Francia nell’aprile del 2010. Per vie traverse è letto da due case editrici italiane, e, infine, la Isbn riesce a convincere Ferrucci ad un’edizione, rivista e ampliata. Questa è pubblicata nel maggio del 2011, a distanza di un anno dalla precedente sorella francese. Le due edizioni non sono tuttavia gemelle, benché entrambe s’inseriscano in un contesto di rottura, sovversione e distacco. L’edizione della Isbn è, infatti, limata, lavorata con un più ampio respiro narrativo e vede l’aggiunta di due ulteriori capitoli al testo complessivo. È quest’ultima, quindi, l’edizione di riferimento.
Strano garbuglio di passaggi e di trasformazioni editoriali porta con sé Sentimenti sovversivi, l’edizione francese essendo ormai esaurita e quella della Isbn attendendo un’ulteriore traduzione presso un altro editore francese, di cui però l’autore tiene ancora segreto il nome.
Il fulcro della narrazione rimane, tuttavia, il medesimo e si staglia in una bipolarità perenne, che si sviluppa tra il luogo del vivere e il luogo dello scrivere, tra l’Italia e la Francia, tra il lido veneziano e Saint-Nazaire. È allora anche lo spazio, il protagonista di questo testo che – benché inizialmente volesse essere una storia d’amore – si trasforma in diario di bordo, con l’intento di scrutare con occhi nuovi – quelli di un espatriato temporaneo? – la situazione del proprio Paese.
È a Saint-Nazaire, dinanzi al porto che si apre sull’oceano – porto agli antipodi di quello veneziano con cui Ferrucci ha acquisito una certa familiarità fin dall’infanzia – che ha inizio l’avventura dello spazio narrativo, della scrittura che si dipana seguendo i suoi luoghi, le sue estensioni geografiche che poco hanno a che vedere con quelle scientifiche, rivelandosi come paesaggi intimi e personali. Saint-Nazaire rappresenta pertanto, per Roberto Ferrucci, il luogo della distanza critica, dell’oceano a vista d’occhio, del paquebot, edificio dai contorni mastodontici che s’impone allo sguardo dei bretoni e si confonde con le tante barche all’orizzonte che quotidianamente salpano e approdano nel porto. «Quando ci sono arrivato – ci racconta Ferrucci – mi sono reso conto che se nella tua vita sono tante, di solito, le case che hai abitato, che abiti, e che abiterai, mi sono accorto che fra queste da una parte c’e la casa dello stare, dall’altra la casa dell’essere. Quest’ultima, è meglio non coincida con casa tua. È piuttosto un sentimento. Senti che questo è il luogo. Non necessariamente dove vivere ma, di sicuro, dove ritornare quanto più di frequente possibile. Poi ho pensato che queste sono considerazioni legate al mio mestiere, alla scrittura, forse».
Sembra, pertanto, essere questa dualità dello spazio a permettere la narrazione, a metterla in scena, portando con sé il ricordo dell’Italia, l’amore di Teresa, la storia di Krzystof e, soprattutto, lo sconforto dovuto ad una realtà che sembra ripetersi inesorabilmente con dei contorni ormai ben troppo noti. L’essere in Francia permette all’autore di considerare con sguardo straniero la propria cultura. L’immagine che Ferrucci ci lascia dei nostri cugini d’oltralpe risulta sicuramente furtiva e forse leggermente superficiale, per chi, come me, conosce ed ha vissuto svariati anni in Francia. L’essere altrove permette all’autore di sviluppare una distanza critica dalla propria realtà. La scrittura – per mezzo del sentimento di lontananza – vede la sensibilità acuirsi, le percezioni diventare sensibili, iper-reattive. Il bello del libro sembra così ritrovarsi nel ritmo impresso alle parole, ritmo che deriva dall’ondeggiare di tutti quegli elefanti marini che si stagliano all’orizzonte, dal vento che si porta appresso la memoria dell’oceano, a volte amica e altre crudele, del dettaglio che altrimenti si sarebbe perso, perché il quotidiano è nemico dei dettagli e dimentica – forse troppo spesso – come lo sguardo abbia fame di paesaggi, benché sconosciuti o forse proprio perché ignoti, di uno scorcio di sabbia, forse anche della reminiscenza di un vecchio film che ci aveva accompagnato durante i nostri anni d’infanzia.
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Lo scorso gennaio Barbara Greggio aveva intervistato Roberto Ferrucci.
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