Sento che avrò fortuna

Creato il 01 giugno 2011 da Vivianascarinci

Su Atto di vita nascente, Maria Grazia Calandrone, LietoColle, 2010 

  

 

 

“Gli amori vivono una sostanza priva di sopralluoghi”  m.g.c.

 

 

Atto di vita nascente è un libro generato da un’occasione catartica. Catarsi dal greco katharsis κἁθαρσις, “purificazione” è un termine utilizzato per indicare la cerimonia di purificazione che si ritrova in diverse concezioni religiose ed in rituali magici che prescrivevano di solito il sacrificio di un capro espiatorio (Wikipedia) allo scopo di addivenire a qualcosa di ulteriore che assuma una forma di maggiore purezza. L’espiazione polarizzata nel capro ne fa l’oggetto rituale dell’impurità da cui si vuole prescindere. Anche il capro in quanto razza animale ha un valore simbolico importante. E’ il segno zodiacale il cui geroglifico viene definito firma di Dio, proprio per via del suo definitivo valore trascendente e conclusivo nell’arco dell’anno. E non a caso questo periodo nella cristianità coincide con la nascita del Cristo, il simbolo sacrificale per eccellenza. La catarsi è quindi un’occasione reale di trasformazione recata al destinatario per le vie inconoscibili del caso o del destino. Una sorta di nascita a posteriori,  alla fine di un percorso tanto dato, quanto misterioso. Simili occasioni possono capitare una o due volte o forse mai, nella scrittura di un poeta come nella vita di ciascuno. Atto di vita nascente è un libro che sembra scritto nell’ambito di un tempo ristretto attinente un rito, un tempo che non c’entra con le date pure presenti, in cui una somma di coincidenze non fortuite, richiamano il presente di quella scrittura nel gorgo della sua provenienza in una spirale che la riconduce, mi pare, a esprimere al meglio il suo senso primigenio. Quello che esiste prima della parola, nell’ora di questa scrittura, trova una dicibilità di ritorno, la catarsi che il compimento richiede rispetto a quanto l’avanzata del tempo ha espropriato al suo primo afflato. Ciò che ha espresso irripetibilmente l’inizio insieme di corpo e presenza al mondo di chi lo abita, qui ritorna in una complessità flebile e sostenuta, in cui versificare è un arbitrio sulle cose, conosciuto il costrutto e trasceso in una dizione che le conosce di nuovo per la prima volta. E’ la bestia multiforme di quanto è senza rimedio a comparire dall’inizio, emersa da un panorama fluviale di verzure e acquitrini, metamorfica come un dato reale in un tessuto che diviene ora per ora il ritorno al passato generativo, il disegno di  un incedere femmineo ora di cerva, ora di mula, ora di lupa, narrato dalla “voce nuda degli oggetti che aspettano giustizia”, dalla timbrica annosa dall’attesa di rinascere che ha destato poeticamente la bestia per cedere ad essa l’incipit della narrazione. Ed è una bestia decidua, quella del principio: cade di continuo e germoglia, e in questo caso solo per rivelarsi essere la fervida umanità di una donna fiorita “per bisogno di luce”. Il richiamo della bestia nella carne umana è un’ostensione inalienabile al dolore di qualsiasi soma, una pena “edificata nel bianco della stortura umana” una richiesta di “pietà per la cagna che pascola il suo corpo senza pietà”. E’ soltanto l’amore che ha la possibilità di velare e disvelare nel corpo questa frattura e che ne ibrida il numero e il genere in una moltitudine fratta di selvagge libertà che prendono “d’erba e di mandrie” fino all’estremo di una consapevolezza tanto improvvisa da abbagliare ”Se la bestia pensa/lo dovetti pensare, mi mancava il coraggio, che la luce che sta nel fondo delle cose è senza me stessa”. La luce sta nel fondo delle cose senza alcunché o altri che la testimoniano ma pure visibile da chi guarda con la stessa luce di dentro “nel petto/con che dolore contrattasse le mattine/la mia luce di dentro, quale pietà chiedesse a quale mai/ precoce intelligenza.”  Se La bestia bianchissima riposa è l’apertura di un libro che ha l’intenzione di principiarsi come testimonianza dell’irrimediabilità che lo ha generato, le poesie che seguono, raccolte sotto il titolo Primo amore  iniziano all’ascolto di una poesia che solo grazie alla consapevolezza dell’incontro con la bestia, assume con pienezza la sua vocazione conoscitiva

“Siamo manifestati dalla perdita

di un’innocenza, dal diminuire del cuore

calcinato dal silenzio dei luoghi

abbandonati da quelli che reciprocamente si chiamarono

cari. Dopo tre notti

non c’è ritorno ma

un’altitudine disturbata di uccelli sui rami”

C’è un frammento di tempo che si snoda ovunque in questo libro, che a tratti è la particella inquieta di una vicenda arbitrata dall’inganno dell’amore

“Questo paesaggio parlerà in mia vece, aggiunse, sul verdelontano

Vociferare

con rami insinuati di sostanze leggere

e amanti come insetti, nulla su nulla”

L’inganno amoroso in altre svolte assume l’universalità della circostanza che il destino prende a scusa per le sue rivelazioni sibilline e indiscutibili. “L’onda che scuote le mattanze è il principio” come a dire che non c’è principio senza la stessa mattanza che ci finirà, sia essa l’amore che mente permanenza di cui non ha vece o la bestia che forse rimane anche se invisibile a richiamare la maternità di un grembo sempre alieno al creduto. In questa poesia quella porzione di tempo, chiusa dai versi,  continua a passare instancabilmente dall’universale al particolare, dalla figura minuta di una cosa che schiude immediatamente al gemellaggio visibile della sua estensione ideale fino a principiare dal niente di un filo d’erba, un tema supremo, come fosse un vero e proprio giacimento inconcluso che va oltre i versi

“Il suolo coltiva l’estremismo della mente

che nota le crescite, la forma compiuta dell’erba. Alcuni

se ne andarono da vivi e hanno avuto parole

di commiato. Prima dovette avvenire un dialogo

di allontanamento. E un viso cominciò

a farsi vicino, portando

con sé la meraviglia dell’inverno”  

L’allontanarsi dei morti è inversamente proporzionale all’avvicinamento del vivo che inizia l’ultima parte, inizia alla conclusione. “Che sarebbe iniziato con una scomparsa, /sapevamo, che ci avrebbe toccati/ come un ritorno” Questo è il vero incipit che termina il libro, la vera chiarità che porta con sé la bestia nell’irreparabilità e nella rarefazione della poesia. Solo questa  bestia può compiere il rito controverso di mettere la mente di chi legge, in una relazione aliena a ogni volizione o giudizio che  non sia“il chiarimento dell’anima” che si libera dal tempo, attribuito solo in apparenza del corpo.  Ed è l’amore, senza dubbio, che “riforma le stazioni di quella liturgia

“Lo stadio dell’amore più turbato e profondo inizia con una guerra,

con leggi di protezione  

e di dissomiglianza”

L’amore testimoniato secondo il suo vero apparato è l’anfratto naturale del caos per come genera da sé immancabilmente monolitico e duttile a  collocarsi e a sedare ogni estraneità per mezzo di una domanda contraria che conferma sempre il desiderio

“Non c‘è più paura. Ma volentieri riconosco i luoghi sopraffatti”

Un luogo sopraffatto assume l’ansito irreparabile della bestia, ne ha le pause che insegnano l’attitudine al finito e all’infinito, il lancio rapinoso dell’amore che è una molestia nella sua finitezza, e il passo mansueto della solitudine che insegna nessun termine che disanimi o muoia. L’amore ha la finitezza del corpo, pare dire la poetessa, la verità è il risvolto celeste  che non ha termine, la sintassi amorosa che si ripete all’infinito gabbando l’uomo per troppa dolcezza animale. Per il transito terreno “è dunque necessaria una volontaria frugalità del pensiero” ossia di imprimere con forza un sentimento di vaghezza al pensiero che così controvertito si perde e “semplicemente crede alla bestia” come se la bestia fosse un’azione di non volontà alla base della coscienza non più animale, non ancora umana, che conserva intatta la ricchezza di un vuoto ricolmo di verità sconosciute tornate a una natura che non è quella che si sa, che si crede

“gli angeli sono pensieri

filiformi

che ordiscono le spezzature del giorno, luoghi dove il pomeriggio

già stellato

ci illude di durare. La fiducia rimanda l’indagine

o perfettamente nasconde

che le intemperie ci guarderebbero alla sorgente. A mani vuote, spogli, come sai”

 

Il sentimento e il silenzio sono l’uno il contrario dell’altro, rivela di seguito la poetessa, il moto del sentimento è immancabilmente un’espiazione che lo muta, lo esaurisce o lo estremizza in un oltranza incontrollata, l’immobilità del silenzio è invece compresa in una visione soltanto presente a sé e che non direziona riverberi, in quanto “le cose restano nel poco di loro somigliante al nostro destino”: se esse restano nel silenzio sono immobili nei muri, se restano nel sentimento, saranno disperse nell’attività notturna dell’aria. Il moto quindi assume una qualità procreativa sull’oggetto che investe la collettività in una folata ventosa che cambia il destino come il compito di ognuno presagisce “nei corpi maturi, dove la vita medita il prossimo passo”.

Maria Grazia Calandrone con questo libro svela più di un arcano con cui la poesia si rivela essere ciò che, nominato dai versi,  smette l’incognita per farsi scoperta esatta e definitiva, e tutto questo, enunciato da un lavorio  prezioso e coerente nell’ambito di una operazione filosofica e poetica profonda almeno quanto intensamente bella. Alla fine della lettura si è soprattutto felici,  confortati di ritrovare nella poesia lo strumento conoscitivo che sapevamo perlopiù essere delle penne dei più grandi talenti.

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Ora la leva è nella mente, ora che il sentimento è nelle cose esperte della consegna  m.g.c.



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