“Senz’alfabeto” di Anna Maria Guidi: l’autunno del linguaggio e il bi-sogno della parola nuova

Creato il 18 luglio 2014 da Alessiamocci

Cosa diversa del linguaggio è la scrittura, la quale può prendersi qualche “licenza poetica” e così inventarsi dei neologismi “giocando” con le parole, suddividendole in parti, in misure (aggiunzioni, sottrazioni, sinalefe, sineresi) o praticandovi degli innesti per ottenere nuovi “frutti”, per imprimere ai vocaboli significati inediti.

“Senz’alfabeto”, di Anna Maria Guidi, è, innanzitutto, questa libertà della scrittura, che qui assume il carattere della necessità.

Neologismi e metalogismi creano l’originalità delle relazioni tra i vari elementi del testo permettendo di oltrepassare le restrizioni linguistiche. Le figure retoriche del suono (allitterazione, assonanza, consonanza, paranomasia) abbondano costituendo un corpus “sin-fonico” che conferisce al testo e all’intera silloge un particolare e gradevole andamento ritmico, quella vivacità, quell’ “andante con brio”, tipico di una composizione musicale, che sopperisce all’assenza, spesso, di quella “musica” interna, di intima appartenenza e convenienza alla creazione poetica, che si dà per mistero e per miracolo prima delle parole che essa stessa sceglie, compone e dispone. 

Qui, al contrario, a suonare, in maniera diretta, sono le parole, che si caricano di più sensi creando particolari paesaggi e atmosfere, (“il giallore smunto dell’autunno”; “il mare/rame d’un golgota di vigne/crocifisse alla vendemmia”; “scervella il sole/nell’agostano avvampo/febbra salini afrori/spolpa sfranti sapori/fuoca erbali umidori”…) o assumono un tono granguignolesco aderendo agli aspetti violenti della vita umana e della natura, all’”esistere mortale”, al “marasmo carnale dell’esistere”, al “cruore”, alla lotta per la sopravvivenza, e cogliendo, fotografando, bloccando, nei loro momenti più crudi e cruenti, alcune specie animali e una umanità, di cui la Guidi si fa specchio rappresentandone l’anima dolente e la carne mortale, la quale, in sé unendo eros e thanatos: le pulsioni di vita e di morte, cerca invano di dissimulare la propria caducità sotto la maschera carnascialesca di un’esistenza solo apparentemente felice:

“nugola un carniere di storni/ piume di sangue alla postrema siepe (…) s’appunta al vetro/ la coccinella novembrina/e nell’impari efforzo/vermigliando precipiti discrepa/le ali della vita”; “fuco la vita/feconda e regge/la morte ape regina”; “lombrica il beccaccino/l’umorale turgore/della sapida preda disterrata (…) uccella l’astuto astore/ la sua funèbre ronda/ frecciando la pernice/in un rostro di sangue”; “ferita a morte/s’appiomba l’atra fuliga/alle farnetiche fauci/della canina foia/guizza / (..) l’aspidica erezione/ammorsando il vindice veleno/la gola armata del cacciator proteso:/ingravidato a morte”; “rutilo poltriglio d’agonia/si spasma il rospo/sul ruvido grigiume dell’asfalto:/dopo la curva/beffardi freni istride/il motore assassino”; “cedua rampica il monte/la solenne baldanza della quercia/così l’obliquo struscio/della carne mortale:/materia in maschera/a corto passo a spasso/sull’inteschiato corso/del serotino carnevale”; “rosicando misuro le falcate del tempo/che sulle punte capillare pulsa/il c(r)uore arterioso dell’esistere”; “e qual farnetico segugio senza fiuto/arrancando e annaspando rincorro/il sogno del per ché e per chi corro/seppur di certo so che non distorno/le saturnine voglie/pertuse nelle matrigne doglie/di nostra mortal sorte: cùpida iena che partorisce e cresce/ed al macello pasce ogni carcassa/ben frolla divorata/e indigesta ri-gettata/nell’orbitante vuota ove smalto collassa/il marasmo carnale dell’esistere”.

In questo marasma, anche il sesso diventa una lotta, un “corpo a corpo” che sfinisce gli amanti vinti dal piacere erotico che la volontà di vivere, cieca, irrazionale e, tuttavia, necessaria per la nostra stessa esistenza, richiede, secondo la lezione di Schopenhauer. Vivere è così un “rito” che accomuna “l’umanide ciurma” agli animali ed è un “miraggio”, un’illusione di eternità che perpetua il dolore attraverso l’eros privando l’uomo della libertà (pp. 25, 26).

Se in questo marasma, se in questo male di vivere c’è un palese richiamo a Leopardi e al “giardino della souffrance”, tuttavia, la presenza di Artaud è qui “dichiarata” attraverso i versi di questo autore,  tratti dalle Poesie della crudeltà, che Anna Maria Guidi riporta nella sua silloge e che sembrano messi lì a segnare delle sezioni, a fare da introduzione, o meglio, da segnavia ai testi, quasi a indicarne, ad anticiparne il percorso, a tracciare i passaggi decisivi del cammino poetico-linguistico-sperimentale della nostra poetessa.

Qui, le parole si fanno corpo e scena della realtà, rappresentata con grande impatto emotivo nei suoi aspetti oscuri e conflittuali, espressa a forti tinte, come nel “teatro della crudeltà” artaudiano, con una partitura linguistica non convenzionale che, se da un lato, tende a provocare la reazione del lettore abituato al linguaggio ufficiale, in cui viene mantenuta la distanza tra segno e realtà, tra parola e pensiero, tra scrittura e vita, anche quando la parola si volge alla poesia e cerca di agguantarla, dall’altro lato, si propone come una lingua nuova, in grado di pro-gettarsi, di andare oltre la semplice funzione comunicativa, oltre l’uso tradizionale del linguaggio per colmare quella distanza e dare all’essere, muto e senza dimora, la sua casa ideale nel linguaggio della poesia, dove lo pensa e lo vuole Heidegger, e verso cui la scrittura della Guidi aspira ad avvicinarsi mettendosi “in gioco”, quasi a costituire un sistema di segni, un nuovo “codice” linguistico sopra l’us(ur)ata lingua, raschiata e destinata a scomparire nel palinsesto.

L’intenzione della Guidi, allora, non è tanto di creare un nuovo stile e una nuova forma, quanto di investire la scrittura della funzione liberatrice del linguaggio, che è quella di svincolarlo dalla tradizione e, dunque, dal già detto, dalle forme del parlato e letterarie, di “azzerarlo” portando la scrittura oltre di esso, a quel «grado zero», teorizzato da R. Barthes, a partire dal quale essa può ricominciare a “parlare” in una dimensione più autentica e vera.

La genesi della parola nuova (o della nuova scrittura) non è facile, perché la scrittura non può ricominciare se non a partire dal “ver(b)o” che la costituisce. Il nuovo corso è un calvario, una passione, un andare “acrobatico” della mente tra “giunchi di parole”, a ridosso del silenzio che non riesce a parlare, a ri-trovare il “ver(s)o”, il “ver(b)o”; a ridare senso e significato al linguaggio, in cui la verità si dà solo nascondendosi e che solo il sogno intra-vede nell’assenza delle parole, al di là di ogni alfabeto. Tra “ustioni” e “algori”, tra “preci” e “croci”: tra tensioni ardenti e algidi esiti espressivi, tra sacri tremori e patimenti tarda a fiorire la primavera della nuova scrittura.

E quel sogno, allora, è un “bi-sogno” necessario che richiede un lungo cammino – “(t)orme di passi” – attraverso “valanghe” di inutili, vuote parole, in cui quella verità è violata, frammentata, dispersa, per sempre dissipata, ma della quale, tuttavia, è possibile intravedere le orme – quasi un principio, un riflesso della sua luce (“il primo vèr del ver(b)o”) -  che la “neve” del silenzio è capace di rilasciare, di riverberare se sappiamo ascoltarlo. Ed ecco!… In virtù del sogno le orme di luce si tramutano in parole: “particole d’aurora” dentro cui “lievita” la celeste ambrosia della poesia: cibo e bevanda di cui si nutre la nostra Ricercatrice, senza mai saziarsene.

Perché queste “particole”, che rifulgono della sacra luce del “ver(b)o”, sono come le ostie, che Anna Maria riceve in comunione. Per cui sempre si rinnova il “bi-sogno” di questo “pane” celeste necessario all’esistenza (pp. 15, 77, 81).  L’ im-pasto linguistico è, dunque, questo atto di comunione mediante cui le parole diventano il nostro corpo e il nostro sangue, ed è noi stessi che offriamo nella comuni(cazi)one che  annuncia e ripete il sacrificio del Cristo.

Senz’alfabeto diventa così, ossimoricamente, un laboratorio di parole, dove la parola è “un frullo di poesia” che s’invola come un passero per ritornare al nido e risplendere della luce della verità (p. 75). E in questa luce, dove le parole ricevono il nuovo battesimo, la nostra poetessa, con atto quasi sacrificale, assume su di sé “la vertigine” del vuoto assoluto del linguaggio che, senza limite, volge al crepuscolo e sbiadisce dissolvendosi nell’albeggiare del verso/verità, che, nel silenzio, “il sogno dice” nell’azzeramento della scrittura, che può così ricominciare a parlare (pag. 81).

 

Written by Guglielmo Peralta

 


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