E stavo provando a scrivere direttamente su un foglio elettronico, ma la tecnologia mi rende inevitabilmente gelido a questo contatto in cui non c’è niente di fisico. E i miei pensieri vanno troppo più veloci del mio indice che, lento, schiaccia questi cubi con le lettere cosicché il fluire non è fluire ma diventa ragionamento sterile e statico.
Ho bisogno di un materiale non digitale, tattile quindi empatico come le grammature del foglio che deve resistere alle mie cancellature nervose ogni qual volta voglio. Perché le macchie nere sparse, come le cicatrici, servono a ricordarmi dove sbaglio e comunque saranno sempre meglio del corrispettivo taglio digitale che rimanda ad una pulizia stilistica innaturale (come questa:nota redazionale).
Io devo confrontarmi con la calligrafia, che l’etimologia ci dice essere la “bella scrittura”, ma la mia scrittura invece fa cagare e a volte rileggo cento volte prima di capire quell’asterisco a cosa lo devo associare.
Con mia madre che mi ricorda che ho 24 anni e che da tempo è passato il tempo del grembiule, credo sia un retaggio inconscio dall’asilo: quando scrivo, io, io mi devo sporcare; devo avere le mani non piene di germi ma di segni da giustificare prima di doverle lavare.
E questo sta a significare che scrivere è un mestiere, come diceva Carver, e in quanto tale è manuale oltre che intellettuale.
Deformazione che mi trascino nell’attività professionale, che, menomale, ha a che fare con l’edificare un concetto per metterlo scritto e aspettare, aspettare che abbia un effetto.
Nel frattempo faccio il negligente e spero che una frase si autoproduca, ma per ora questa cosa l’ha raccontata solo Ende, ma gente, quella era “La storia Infinita”.
Devo gestire una penna o una matita, o qualsiasi cosa si possa consumare, che si possa mordere o lanciare ma che non mi abbandoni quando le api che mi volano nella testa si poggiano sulle righe per poterle impollinare.
Andando a sfogliare, mi accorgo che questo monologo interiore di rime è senza titolo e quindi “senza titolo” sarà il titolo di questo monologo interiore di rime, perché un titolo spesso dice anche troppo e toglie la curiosità di arrivare alla fine.