Serbia, Albania e questione nazionale

Creato il 24 ottobre 2014 da Calcioromantico @CalcioRomantico

Se in Italia la nazionale di calcio rievoca ricordi perlopiù legati al mero campo da gioco, in altri paesi il termine “nazionale”, seppur poco definito e sempre in via cambiamento, riassume le cause delle maggiori sciagure del secolo passato e di quello presente. Mentre oggi da noi la polemica si accende solo quando un leghista a caso tifa contro gli azzurri, altrove la questione è molto più spinosa e il calcio si è spesso dimostrato un barometro importante di umori e pulsioni ben poco razionali. Ad esempio, la questione nazionale per i nostri vicini balcanici ha significato e significa molto, ma è anche stata spesso cavalcata in modo del tutto strumentale. Andiamo, però, per gradi.

Che la Serbia abbia spesso confuso il progetto jugoslavo con quello di una grande nazione serba non è un mistero, e il sogno è durato finché un croato chiamato Tito ha governato da Belgrado. La salita al potere del serbo Slobodan Milošević ha in pochi anni tracciato un solco tra il sogno serbo e le aspirazioni croate, solco che due sfide tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria riassumono in modo perfetto.
Il 4 maggio 1980, alla notizia della morte del maresciallo Tito, le due squadre sospesero per lutto la partita in corso. Dieci anni dopo, il 13 maggio 1990, a distanza di sei giorni dalle elezioni che in Croazia avevano consacrato vincitore il partito di Franjo Tuđman, scoppiarono incidenti nel prepartita della sfida in programma al Maksimir di Zagabria proprio tra gli stessi due club.[1] La polizia della Federazione Jugoslava intervenne in modo massiccio per sedare i duri scontri e celebre rimase il calcio volante sferrato dall’allora ventunenne Boban a un poliziotto che in quel momento stava manganellando un sostenitore della Dinamo. L’inizio delle guerre jugoslave, o meglio il casus belli, è spesso stato identificato proprio con gli incidenti a margine di quella Dinamo Zagabria-Stella Rossa. Nel 1990, d’altronde, le tensioni erano altissime e gli ultras andarono di li a poco a infoltire le milizie paramilitari di entrambi i fronti, come ad esempio le famigerate tigri di Arkan. Ancora oggi negli stati dell’ex-Jugoslavia è possibile trovare targhe commemorative dei tifosi caduti nella prima metà degli anni Novanta.

Se è vero che le guerre jugoslave sono finite in Kosovo, è anche vero che il nazionalismo albanese in quel paese è stato paradossalmente un fenomeno jugoslavo. Nel senso che l’Albania, isolata per quaranta anni sotto il regime di Hoxha, ha pensato solo a fomentare manie di persecuzione e accerchiamento costruendo bunker e mai avrebbe pensato di avanzare rivendicazioni territoriali nei confronti dei vicini jugoslavi che, semplicemente, la ignoravano. Gli albanesi jugoslavi – a loro volta – erano inseriti nel tessuto sociale e amministrativo della Federazione, integrati fin quando le discriminazioni perpetuate da Milošević trasformarono l’aspirazione a creare una repubblica socialista jugoslava del Kosovo in un sogno di completa indipendenza.
A questo punto il nazionalismo albanese ha cominciato a crescere, a diventare tronfio e arrogante, cibandosi d’ignoranza e leggende fondative, ma arrivando a tutti gli albanesi dei Balcani.

Ecco da dove nasce il progetto della Grande Albania (ultimamente denominata anche Albania Naturale): dal sogno di unificare tutti gli albanesi in un unico stato che includerebbe attuali Albania, Kosovo, il sud del Montenegro, le zone di Joannina, Igoumenitsa e Corfù in Grecia, Ohrid e il Nord della Macedonia, alcune regioni nel sud della Serbia. Forse è inutile precisare che tale aspirazione rende gli albanesi inevitabilmente mal visti da tutti i loro vicini.
Nelle scuole dell’Albania si insegna che il popolo albanese deriva da quello illiro. In effetti – anche se l’origine del popolo albanese è ancora molto dibattuta – molti studiosi ritengono che l’origine illira sia l’ipotesi più probabile. Siccome i Romani, prima della conquista dei Balcani, identificavano come illiri tutti i popoli della penisola, ecco che il recente nazionalismo albanese trova fondamento per legittimare aspirazioni di dominio su mezza penisola balcanica.

Il nazionalismo pan-albanese, come tutti i nazionalismi, si basa quindi su mitologie e fraintendimenti che col tempo hanno avuto ampio spazio anche sui libri di storia, ed è oggi è causa di instabilità in pressoché tutti i paesi confinanti con l’Albania. Nonostante questo, sarebbe scorretto far passare l’idea che tutti gli albanesi siano nazionalisti, anche perché non c’è nemmeno una forte unità tra loro. Infatti, oltre alle canoniche divisioni tra albanesi del nord e del sud, vi è anche una certa diffidenza nei confronti degli albanesi delle campagne e di quelli jugoslavi, anche se vi è un rispetto di base che non ha mai permesso – ad esempio – divisioni o scontri su base religiosa.

Durante lo scorso mondiale gli albanesi – non potendo tifare la propria nazionale- hanno sostenuto squadre diverse, seguendo i paesi di maggiore emigrazione: in primis Germania, Svizzera e Italia. Ma durante le qualificazioni alle competizioni internazionali, quando l’Albania può sognare ancora, il popolo albanese – non solo d’Albania – si riunisce attorno alla propria aquila bicefala. La provocazione di una bandiera della Grande Albania che sventola sul campo ha causato la sospensione della partita Serbia-Albania il 14 ottobre 2014[2], ma avrebbe causato scontri anche se la squadra sfidante fosse stata la Grecia, la Macedonia o il Montenegro. Con buona pace di chi ha forzatamente ricamato sulla presenza del famoso Ivan (il capo ultrà serbo arrestato in merito ai fatti di Italia-Serbia del 2011), spacciandola per fondamentale.[3]

Che la provocazione sia stata indirizzata direttamente dall’Albania alla Serbia è, in fondo, una novità, anche se il nocciolo della provocazione richiama alla questione kosovara, che nuova non è. Ma la cosa più assurda è che ancora nel 2014, con la consapevolezza dei danni causati da queste ideologie, si portino ancora avanti i nazionalismi congiuntamente con l’aspirazione europeista. L’Albania e la Serbia, infatti, sono in fase di adesione all’UE, così come la Macedonia e il Montenegro.
Il caso albanese, seppur peculiare, non è isolato nei Balcani. Anche altri paesi vivono in un mondo dicotomico diviso tra passato e futuro. Da un lato si rispolverano storie vecchie di millenni a scopo strumentale in pieno stile nazionalista dell’Ottocento e del Novecento, dall’altro si immagina di far parte di un’Unione Europea senza frontiere, collaborativa e aperta a scambi e contaminazioni.

Sicuramente se non riusciranno a giocare in pace una partita di qualificazione all’europeo, non potranno neanche pensare di impegnarsi in un progetto di unione pacifica con i loro vicini, ed è per questo che il gioco del calcio continuerà a fungere da barometro importante per capire i cambiamenti in corso nei Balcani.

vincenzo, con integrazioni di federico e daniele

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[1] Per quanto accaduto al Maksimir e per alcuni approfondimenti cfr. Storie in Fuorigioco, Christian Elia, pag. 79
[2] Partita sospesa al 43′ del p.t. La UEFA dà il 3-0 a tavolino alla Serbia, ma contestualmente la penalizza di tre punti, di fatto invalidando la partita. Una decisione che ricorda quanto sancito dall’UEFA nel 1994 dopo Milan-Casino Salisburgo
[3] La partita di Genova, valida per le Qualificazioni Europee, non inizia per gli scontri scoppiati sugli spalti. La UEFA darà la vittoria per 3-0 a tavolino alla squadra di casa, ma famoso rimarrà il tre mostrato ai propri tifosi da Stankovic, simbolo serbo per dio-patria-famiglia e la ridicola interpretazione di Mazzocchi ai microfoni RAI. che fu all’incirca così: “Ecco vedete, i giocatori serbi fanno segno ai tifosi che se continuano così perdono tre a zero a tavolino”


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