Un pesce di nome Boris.
di Filip Stefanović
Nelle ultime settimane vi abbiamo risparmiato ulteriori aggiornamenti dal confine serbo-kosovaro. Di fatto, perché nulla cambiava col passare del tempo: da cinque mesi ormai i serbi giocano a nascondino con la KFOR, rivendicano il Kosovo, tirano su una barricata, si ritirano, i soldati internazionali la abbattono, i serbi bloccano un altro valico di frontiera, le forze di pace gli trotterellano dietro e intimano di fermarsi, e così via, di valle in valle, su e giù per i monti del Kosovo settentrionale. Roba che se lo dite a Kusturica vi gira in mezzora una scenetta gitano-onirica con trombe e fanfare da godersi al cinema. In tutto ciò, Belgrado che fa? Verrebbe da dire, e mai citazione fu più azzeccata, si costerna, s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità.
Fino alla nausea abbiamo sentito ripetere dal presidente serbo Boris Tadić che quello delle barricate (di sassi, macerie, tir o colate di cemento, a seconda dell’umore) era un diritto, pacifico e legittimo, della minoranza serba del Kosovo. Tanto pacifico che ci sono a più tornate scappati feriti da ambo le parti. Eppure, che un tale atteggiamento non potesse portare a nulla di buono era evidente a chiunque avesse un minimo di sale in zucca e non fosse completamente in malafede. Per questi ultimi, invece, Angela Merkel in persona si era scomodata, durante la sua visita agostana a Belgrado, ad affermare chiaramente, di fronte all’imbarazzato stupore di Tadić, che mai la Serbia avrebbe potuto aspirare all’Unione Europea senza prima voltare, una volta e per tutte, la pagina del Kosovo.
Tadić, il cui motto è sia Europa che Kosovo, non deve aver colto l’antifona. E così, anche dopo la luce verde della Commissione Europea per la candidatura del paese all’UE, in ottobre, non ha pensato che quello potesse essere veramente il momento buono per staccare la spina all’ex provincia e accettare la realtà dei fatti, che triste o fortunata, è quella che è. O, forse, il presidente serbo aveva tutto il diritto di illudersi di avercela fatta, dato che, diciamocelo, l’approvazione da parte della Commissione è stata più un premio ai clamorosi arresti dell’anno (Mladić&Hadžić), piuttosto che un giudizio equo, vista anche la sempiterna tensione in Kosovo, palesemente cavalcata da quei di Belgrado. E se la Commissione è stata generosa, perché non avrebbe dovuto esserlo il Consiglio europeo del 9 dicembre? Così, invece di usare i due mesi a disposizione per placare le tensioni con le forze della KFOR, i cui soldati, in larga parte forniti da quella stessa Europa a cui si chiede domicilio, vengono presi a sassaiole, Tadić ha proseguito la sua sclerotica linea di corteggiatore dell’Unione europea e conservatore del Kosovo serbo.