Dopo sette gloriose stagioni, Mad Men è giunta al termine, con un finale di stagione che ci ha tenuto in scacco fino all’ultimissima scena, dividendo il parere dei suoi fan. Una serie che si è contraddistinta fin dall’inizio, e per ben sette cicli di episodi, per la sua ottima fattura e qualità, tanto di scrittura quanto di recitazione, fotografia e ricostruzione storica. Ambientata tra gli anni '60 e '70, Mad Men ci ha raccontato un mondo lontano ma non troppo, di cui riusciamo a comprendere i pregi e le difficoltà e contraddizioni, non solo, ma ne avvertiamo ancora gli effetti sulla vita odierna. Raffinata e introspettiva, Mad Men ha scavato nel profondo delle vite dei suoi personaggi, mostrandoci luci e ombre, ma anche mantenendo sempre vivo quel gioco di specchi che persino nel finale di stagione non si riesce a sciogliere del tutto, facendo del non detto, dell’elegante sussurrare all’orecchio dello spettatore senza mai rivelare troppo, uno degli elementi più amati e che più ci mancheranno di una serie che ha fatto la storia della televisione degli ultimi anni e ha lasciato un’eredità notevole e un modello da cui trarre ispirazione.
Questa settima e ultima stagione, andata in onda divisa in due parti tra il 2014 e il 2015, ha cercato di districare i nodi delle vicende narrate e delle differenti linee narrative legate ai vari personaggi. Per l’intera stagiona l’atmosfera respirata è stata quella tipica dell’attesa e della curiosità malinconica che solo un epilogo sa dare. Il passaggio a un nuovo decennio provoca degli scossoni nelle dinamiche relazionali e nelle vite dei Mad Men, che si ritrovano quasi tutti alle prese con una crisi di identità e con la sfida di trovare il proprio posto e fare quel salto verso il futuro a cui tutti sono chiamati. In 14 episodi vediamo i protagonisti annaspare, disperarsi, illudersi, per poi riprendere nuovamente la salita, raccogliere le forze e tornare a lottare, o semplicemente fermarsi un attimo, mettere in pausa tutto e avventurarsi in un viaggio alla scoperta finale di se stessi e alla propria accettazione.Si arriva così a un finale che è un gioiellino e uno smaccato colpo di genio, in cui ogni personaggio incontra il proprio epilogo - alcuni inaspettati, altri naturale conclusione degli eventi – da abbracciare e fare suo.
Prima ancora dei Mad Men, allora, occorre parlare delle Mad Women e di come viene trattata la tematica femminista nella serie, attraverso i due principali personaggi femminili, Peggy e Joan. Le due donne seguono lungo la serie due percorsi diversi eppure intrecciati tra loro: da un parte c’è Joan, una donna che dà dimostrazione di sicurezza e confidenza con l'ambiente in cui vive e lavora, consapevole dei suoi punti forti e convinta di poterli sfruttare nel modo migliore e per i suoi scopi senza agitare troppo quel mondo di uomini che pare guardarla sempre nello stesso modo; dall’altra c’è Peggy, che fin da subito si rivela insofferente agli stereotipi e al ruolo che la società vorrebbe imporle, al punto da cogliere al volo e con tutta l’energia di cui è capace il cambiamento che giunge attraverso Don Draper, l’occasione da non mancare e che, con il doppio dell’impegno e della fatica che avrebbe fatto un uomo, la porteranno a svolgere il lavoro che ama e a raggiungere una posizione autorevole non così comune a quei tempi per una donna. In questi anni, Joan e Peggy hanno dovuto lottare e confrontarsi con una realtà tutt'altro che semplice per raggiungere i loro obiettivi, un percorso che ha plasmato la loro persona e ne ha accentuato i tratti più forti e indipendenti.
E così, sul finire della serie, sorprende vedere la piega che le loro vite prendono e il finale che Weiner riserva loro. Peggy, che si è dedicata anima e corpo al suo lavoro e a difendere con le unghie e con i denti quel rispetto che le era dovuto, ma purtroppo non sempre garantito, tralasciando gli affetti e sterilizzando la sua vita da sentimenti e passioni troppo importanti e travolgenti che la distogliessero dalla sua carriera, trova proprio nell’ultimo episodio quell’amore a lungo tenuto lontano e tanto temuto, nel collega fricchettone Stan - personaggio da me sempre adorato e a cui avrei voluto fosse concesso più spazio –, in una scena che, strano ma vero, rientra nei più classici canoni della commedia romantica e ci emoziona. Joan, invece, continua a lottare per emanciparsi da quell’immagine alla Jessica Rabbit che la società di uomini le ha assegnato, lavorando duramente e rifiutando svariate volte soluzioni molto più comode e facili, ma dalle quali non avrebbe tratto alcuna rivendicazione né affermazione personale: dicendo addio all’ultima sua storia importante che ci viene raccontata nella serie e sganciatasi dalla società con gli altri uomini dell’agenzia, ultimo retaggio di quel supporto al maschile di cui per anni la società le aveva fatto credere di avere bisogno, Joan decide di continuare la sua strada da sola e si rende conto di saperlo fare molto bene, scegliendo il lavoro prima di tutto e dimostrando a tutti di non essere solo un bel paio di tette ma una donna decisa e in carriera, con una casa di produzione di sua proprietà.
Dall'altra parte abbiamo le donne di casa Draper. Il destino che la serie riserva a Betty è quanto mai amaro: la donna, infatti, scopre di avere un cancro in fase terminale e accetta stoicamente la nuova condizione, con una forza d'animo tipica del personaggio, che l'aiuta a sopportare persino l'ennesima intromissione di una società maschilista che non vuole darle voce in capitolo neppure quando si parla del suo corpo, nella scena in cui il dottore spiega a un Henry sgomento che la moglie sta per morire, lasciando la diretta interessata in disparte come se non fosse importante che lei sappia. Non è dunque un caso se, nella panoramica finale sui vari personaggi, Betty ci appare nella sua cucina mentre fuma una sigaretta incurante della sua salute, in un gesto che dolorosamente ci parla di rivincita, libertà e affermazione del proprio sé nello stesso momento. Alle sue spalle, la giovane figlia Sally, che sembra essere destinata a passare ciò che la stessa Betty aveva vissuto con sua madre in passato. Tuttavia, i tempi sono cambiati e Sally ha dimostrato di aver preso i tratti migliori dei suoi genitori, per questo non riusciamo a preoccuparci per lei, consapevoli che la ragazza saprà cavarsela alla grande.
Una conclusione più prevedibile ma perfetto compimento di un percorso che è stato rito di passaggio e formazione è quella di Pete Campbell. Sette anni fa, Pete attirava tutte le mie antipatie per essere una arrivista sprezzante e snob, incapace di provare empatia per il prossimo e, dall’altra parte, troppo succube delle imposizioni dettate dalla sua famiglia e dall’appartenenza a una certa classe sociale per poter apparire genuino o avere il coraggio di esprimere davvero il suo pensiero. Nel corso della serie Pete non riesce completamente a togliersi di dosso quell’immagine di codardia, meschinità e cattiveria gratuita che sono diventate la sua armatura contro il mondo; tuttavia, Pete vive molteplici fasi di transizione lungo queste sette stagioni e la storia con Trudy e le vicissitudini familiari lo porteranno più volte a riflettere su se stesso e a considerare le sue azioni e le conseguenze da esse causate. Il più delle volte tali riflessioni si risolvono con un’alzata di spalle, per ripartire verso l’ennesimo obiettivo o cliente, la nuova occasione per risplendere e risultare vincente, ma gli anni si fanno sentire e Pete finisce per capire che l’unica cosa che può dare senso a una vita che è sempre apparsa pilotata da altri e non da lui è l’amore per Trudy e la famiglia che loro due hanno creato. E sebbene qualcuno abbia ipotizzato che Pete muoia per causa di un incidente aereo, io preferisco pensare che l’immagine felice di lui insieme a Trudy e la piccola Tammy mentre salgono sul jet privato, verso un nuovo lavoro e una nuova vita, sia il segno di un futuro molto più sereno per Pete, sperando sia diventato meno carogna di un tempo.
Parlando di canaglie, non si può non accennare a Roger Sterling. Roger è rimasto un personaggio mitico per quasi tutta la serie, tra scossoni, trasferimenti, cambiamenti e persino quando aveva dato il benservito a Don. Fedifrago, bugiardo, approfittatore, cazzaro della miglior specie, ha quei modi eleganti da vecchio mondo che lo rendono irresistibile a qualsiasi età e anche con quegli orrendi baffi visti negli ultimi episodi, ma i cambiamenti dell'epoca e l’addio di Cooper lo rendono nostalgico verso una società che non c’è più e desideroso di “mettere la testa a posto” e finalmente godersi un po’ di serenità. Il matrimonio con Marie Calvet è la fine dei suoi giorni da donnaiolo, ma lo champagne e l’aragosta ordinati al bar ci dicono che Roger resterà sempre il solito edonista e a noi la cosa non dispiace affatto. Idolo.
Tutti i riflettori, però, sono ovviamente su di lui. D’altronde non c’è Mad Men senza Don Draper. L’uomo che di episodio in episodio precipita nel turbinio di una vita che si basa sull’ambiguità, su un unica grande menzogna che cresce di stagione in stagione, fino a divenire insopportabile, costretto a portare una maschera che si sgretola così come il mondo attorno a lui. In un’epoca in cui il suo old fashioned ha perso completamente di appeal e che lui non riesce a comprendere del tutto, il passato torna a bussare prepotentemente alla porta e dopo anni di fuga, tra alcol, fumo e molte donne – nelle quali Don cerca una compagnia che però non riesce mai a colmare il vuoto della sua esistenza poiché mai basata sulla sincerità e l’autenticità di sentimenti –, Don decide di affrontare i suoi demoni e allontanarsi da quella vita che sempre più spesso gli appare ormai come una lunga insopportabile messinscena. La scena in cui Don abbandona la riunione ha in sé grande pathos e tensione drammatica. Don si era convinto che, dopo il baratro dell’alcol, il licenziamento dalla Sperling & Cooper e la successiva riassunzione assecondando molteplici regole, il nuovo lavoro in una delle più grandi agenzie pubblicitarie del Paese gli avrebbe dato la possibilità di ricominciare, ancora una volta, con un nuovo ruolo, un nuovo ufficio e un nuovo volto. Ma l’atmosfera opprimente di una sala riunioni in cui tutti compiono gli stessi gesti, annuiscono alle stesse parole e prendono appunti identici, finisce per sopraffarlo: niente è cambiato e solo lui può prendere in mano la situazione.
Negli ultimi tre episodi vediamo così Don allontanarsi da New York e percorrere gli Stati Uniti sfrecciando lungo le strade che collegano l'Est con l'Ovest. Un percorso che è fuga ma al contempo ricerca, andata e arrivo insieme, rivelazione e scoperta. A ogni tappa del suo viaggio vedremo Don spogliarsi di qualcosa della sua vita e ogni oggetto rappresenterà un fardello di cui il nostro protagonista si disferà quasi con sollievo, fino a quando non decide di lasciare al ragazzo del motel la sua costosissima auto come incentivo e stimolo, in una sorta di passaggio del testimone che lo rende finalmente libero. Sarà questo il segnale che è giunto ormai il momento di confrontarsi con se stessi: Don torna a essere Dick e con l'unica persona ancora a conoscenza del suo segreto, la problematica Stephanie, decide di vivere una nuova e misticheggiante esperienza, quella della comunità hippie. Una scelta insolita che lascia lo spettatore interdetto. Don appare per la maggior parte del tempo un pesce fuor d'acqua, inadatto e fuori posto, "vecchio" con le sue reticenze e i modi di fare impostati, rispetto alle persone che lo circondano, ritrovatisi lì per entrare in contatto con l'altro ed esprimere le loro sensazioni, i loro pensieri e sentimenti. Per Don tutta quell'esternazione è a tratti incomprensibile, per altri versi spaventosa, per altri ancora affascinante. E mentre il nostro protagonista si scioglie e abbraccia uno sconosciuto in cui riconosce la sua vita e quella sensazione di vuoto e solitudine che lo accompagna da sempre, la nostra perplessità aumenta e ci chiediamo se la svolta flower power degli ultimi episodi non abbia finito per prevalere e Weiner abbia deciso di lasciarci con una versione fricchettona di Don Draper, tutto preso da meditazione e saluti al sole, distruggendo così una serie meravigliosa in pochi minuti... quando ecco il colpo di genio.
Don Draper, apparentemente riappacificatosi con se stesso, sorride serafico e nella scena successiva ecco apparire il Sacro Graal della pubblicità, lo spot "I'd Like To Teach The World To Sing" con cui Coca Cola ha cambiato la sua immagine e dominato il panorama dell'advertising per anni, rappresentando la vera rivoluzione che attendeva e di cui aveva bisogno. Un finale che ci esalta, ci diverte, il tocco di classe che riesce a dare un significato a una stagione meditabonda e piena di interrogativi e di fornirci il punto di arrivo di una caduta in volo che dura da sette stagioni.
Con quell'ultima scena, Weiner ha voluto giocare con tendenze e fatti reali, ricalcando ancora una volta la capacità di Mad Men di raffigurare un'epoca per poterla interpretare e e comprendere, per poter ancora una volta collegare i suoi personaggi a un sentimento e una concezione del mondo più universale. Perché Don Draper potrebbe benissimo essere autore di uno spot come quello di Coca Cola. Perché Don, spogliandosi di tutte le scorie accumulatesi da una vita piena di ambiguità e bugie, riesce finalmente a capire chi è davvero, ovvero un uomo dal grande talento, un pubblicitario e un creativo in grado di partorire idee geniali. Don ha finalmente trovato la sua dimensione e il suo posto nel mondo.
Mentre scorrono le immagini degli hippies che cantano su una collina e bevono Coca Cola, termina così il viaggio di Mad Men. Un viaggio straordinario, il racconto dell'american way of life attraverso le sue diverse fasi, fatto con eleganza e intelligenza, costellato di personaggi destinati a divenire vere e proprie icone indimenticabili. Un capolavoro a cui penseremo sempre come uno dei punti più alti raggiunti dalla tv e dal suo ideatore Matthew Weiner, a cui va tutta la mia ammirazione e gratitudine di spettatrice e dipendente seriale.
Fine delle trasmissioni, ma già quanta nostalgia dei nostri Mad Men.