C’erano Dracula, Frankenstein e Dorian Gray. No, non sto scherzando. E no, non è una storiella da quattro soldi. O forse si. “Penny Dreadful” è il nome che si dava a pubblicazioni molto in voga nell’Inghilterra del XIX secolo, simili al feuilleton o al romanzo d’appendice, solitamente storie gotiche e horror che si pagavano, un penny, appunto. Racconti sgrammaticati, enfatici, tesi al sensazionalismo, a generare paura e intrattenimento, ma che hanno comunque avuto influenza negli scrittori dell’epoca e grazie ai quali è nata tutta quella mitologia moderna dell’orrore che conosciamo ancora oggi. La serie, in onda negli States su Showtime, si ripropone di ricreare le atmosfere dell’epoca e far rivivere quelle storie entrate a far parte del nostro immaginario collettivo. Tra vampiri, lupi mannari, geroglifici e possessioni, Penny Dreadful è una serie dal cast di primo livello, come tutte le serie migliori del momento, che fa del sublime e della ricerca estetica i mezzi con cui terrorizzarci e allo stesso tempo lasciarci conquistare dal loro intramontabile fascino.
La serie è ambientata nella Londra di fine Ottocento e la città ci appare così come libri e film ce l’hanno sempre descritta: grigia, avvolta nella famosa pea supper – la nebbia verdognola che ricordava la zuppa di piselli – grottesca, inquietante, animata da personaggi misteriosi, attraversata da vicoli e stradine ai cui angoli non si sa mai cosa si possa nascondere. In questa Londra vittoriana dai toni cupi e fumosi, sir Malcom Murray (Timothy Dalton) è alla ricerca di sua figlia Mina, rapita da un essere mostruoso e assetato di sangue. Nell’impresa lo aiutano Miss Vanessa Ives (Eva Green), amica intima di Mina e, per non farsi mancare nulla, sensitiva, Ethan Chandler (Josh Hartnett), un cowboy americano dal passato altrettanto misterioso, e il dottor Victor Frankenstein, alle prese con i suoi studi per sconfiggere la morte e tirato dentro la vicenda come esperto di corpi umani e stranezze varie.
Ok, detta così pare una “cagata pazzesca”. E, in effetti, non si può dire che sia la trama in sé il vero punto di forza della serie. La scrittura non è originalissima, considerando che la storyline principale prende a piene mani dalla già citata tradizione gotica e horror dell’ottocento letterario. Ci sono i mostri succhia sangue, il misterioso Egitto con il suo Libro dei Morti e le promesse apocalittiche, l’Uomo Moderno di Frankenstein, licantropi che girano liberi per le strade della città, l’ombra di Jack lo Squartatore, uomini immortali dalle fantasie perverse e desideri grotteschi. Se siete fan dei rimandi (più o meno) colti e dei giochi intertestuali, come me, probabilmente sarete già pronti per vedere il pilot e tuffarvi in una dimensione che riesce ancora a intrigare a distanza di più di un secolo. Tuttavia, la serie riesce a dimostrare anche una sensibilità particolare nelle linee secondarie e nell’approfondimento dei personaggi, come per la storia tra Chandler e Brona – raccontata con inaspettata grazia, la cui delicatezza contrasta meravigliosamente con la brutalità del mondo esterno – o come per il personaggio di Vanessa Ives, disturbante al punto da rubare la scena a tutto il resto più di una volta nel corso degli episodi.
Quello che però che caratterizza e rende la serie interessante e molto godibile è la sua ricercatezza estetica, quella ricerca del bello che si manifesta in una cura della fotografia e un’attenzione per i dettagli degna delle migliori produzioni e che si ricollega così bene alla corrente dell’estetismo che tanto era amata dai filosofi e artisti dell’epoca – e non a caso nella serie sia presente il dandy per eccellenza Dorian Gray, il quale vive in una casa, piena di belle cose, di musica, arte, quadri, dove si celebrano l’eccentrico e il piacere, cardini della sua esistenza, e nascondono agli occhi dei curiosi ciò che di autentico c’è nella vita dell’uomo, un quadro che invecchia e muore al suo posto. Bellezza e morte, d’altronde, sono sempre stati legati tra loro in maniera indissolubile e non è un caso che il sublime nasca di fronte al sentimento che l’uomo prova per qualcosa che va oltre la sua comprensione e che risulta pericoloso eppure irresistibile. Il genere gotico ben si presta a interpretazioni del genere e il ricreare atmosfere e ambientazioni di quel tipo fa sì che Penny Dreadful possa essere una produzione quasi artistica e dai toni poetici, con pretese molto più alte di quelle che ci si aspetta da serie del genere.
Il personaggio di Vanessa Ives, vero perno della storia, va letto in questo senso. Eva Green, star indiscussa della serie, mette in mostra una bellezza preraffaellita, eterea e sensuale allo stesso tempo, mentre conferisce al personaggio un bagaglio di emozioni ricco e articolato e una caratterizzazione enigmatica e complessa che genera inquietudine e incommensurabile fascino nello spettatore, grazie anche a una fisicità straordinaria dell’attrice, che tiene le redini di ogni sua scena con pathos e grande consapevolezza. Vedere la scena della seduta spiritica o il quinto episodio per credere. Ci piace anche Josh Hartnett –che io avevo dato per disperso come neanche il suo personaggio ai tempi di Pearl Harbour –, che sa dare al suo cowboy un risvolto diverso dal solito luogo comune dell’americano in visita nel vecchio continente e ci fa commuovere con lalove story con Brona, mentre monta la curiosità per conoscere il suo misterioso passato (anche se qualche teoria già ce la siamo fatta e attendiamo la conferma… ahuuu!).
Quali sono le zone d’ombra di Penny Dreadful? Paradossalmente, è proprio il suo più grande punto di forza a rivelarsi anche una fonte di debolezza per la serie. La ricerca formale e il votarsi a una messa in scena raffinata ed elegante potrebbero far perdere alla storia la possibilità di crescere e di evolversi in maniera indipendente e originale, con il rischio che, in piena adesione alla corrente estetica, “l’arte per l’arte” intrappoli la serie nelle strutture standard e nelle etichette già ampiamente utilizzate del genere horror, a discapito del fatto che la serie possa avvalersi di nomi importanti nel settore dell’autorialità televisiva e cinematografica, come Sam Mendes, John Logan e Juan Antonio Bayona (che ha diretto i primi due episodi), indubbiamente capaci di realizzare prodotti di notevole spessore. In Penny Dreadful tutto deve avere un impatto immediato nello spettatore, bisogna spaventare il pubblico, nel modo più terrificante possibile, con il pericolo sempre in agguato che gli intrecci risultino superficiali, o peggio ancora, prevedibili.
Eppure. La mancanza di una scrittura del tutto autentica, in una serie come Penny Dreadful, sembra quasi a passare in secondo piano, o quanto meno, non avere la preminenza che avrebbe in altre serie, soggiogati come siamo da una rappresentazione impeccabile. Luci, colori, oggetti di scena, i costumi… Londra è un grande teatro, un palco su cui si affacciano personaggi fantastici ai quali fin da subito votiamo la nostra attenzione e fascinazione. E allora, basta la bravura della Green e la sua comparsa sullo schermo mentre assume le sembianze stravolte della medium posseduta, per conquistare tutti.
Consigliata in particolare agli amanti del genere, Penny Dreadful è una serie che turba e confonde, ma che allo stesso tempo intriga, per i misteri che vuole raccontare e per gli enigmi di cui è composta, primo fra tutti se Penny Dreadful è la banale storia di mostri terrificanti e della solita lotta tra bene e male o se lo show si rivelerà essere quel prodotto di qualità che vuole farci credere di essere e regalarci qualcosa di più di un semplice, per quanto piacevole, spavento. Intanto, la serie è stata rinnovata per una seconda stagione. Da paura.