Chi mi conosce da tempo per il progetto Sul Romanzo non può ovviamente sapere di uno stile di vita che mi ha accompagnato per anni: il volontariato. Una dimensione che ho coltivato in diversi modi. Anche brevi esperienze, ma se dovessi esplicitare quelle più importanti dal punto di vista temporale, allora sono quattro: dedicandomi a chi aveva problemi di alcolismo, alle donne finite nel mondo della prostituzione di strada, ai bambini malati e ai senzatetto.
Nonostante gli anni dell’adolescenza avessero coinciso con il mio allontanamento dalla chiesa cattolica, portavo sempre con me, per motivi che ancora oggi non saprei esplicitare, due passi del Vangelo, precisamente Matteo 6,1-4:
“Attenti a non fare il bene in pubblico per il desiderio di essere ammirati dalla gente; altrimenti non avrete nessuna ricompensa dal Padre vostro che è in cielo.
Quando dai qualcosa ai poveri, non fare come gli ipocriti, non farlo sapere a tutti. Essi fanno così nelle sinagoghe e per le strade, perché cercano di essere lodati dalla gente. Ma io vi assicuro che questa è l’unica loro ricompensa.
Invece, quando aiuti qualcuno, non farlo sapere a nessuno, neanche ai tuoi amici. La tua elemosina rimarrà segreta; ma Dio, tuo Padre, vede anche ciò che è nascosto, e ti ricompenserà”.
E, poco dopo, Matteo 6,5-6:
“E quando pregate, non fate come gli ipocriti che si mettono a pregare nelle sinagoghe o agli angoli delle piazze per farsi vedere dalla gente. Vi assicuro che questa è l’unica loro ricompensa.
Tu invece, quando vuoi pregare, entra in camera tua e chiudi la porta. Poi, prega Dio, presente anche in quel luogo nascosto. E Dio tuo Padre, che vede anche ciò che è nascosto, ti darà la ricompensa”.
Mi ero fatto un’idea, o una convinzione: volevo mettere parte del mio tempo a disposizione di chi aveva qualche problema – rigorosamente senza farlo sapere a nessuno – e non tolleravo più chi peregrinava nelle chiese del mondo assieme agli altri quando il loro stesso Dio aveva consigliato di pregare in solitudine. Perciò trascorsi anni a dedicarmi al volontariato e non frequentai più le chiese.
Mia madre chiedeva: «Dove vai?», «Vado a trovare Denis». Una volta era Denis, un’altra volta Cristian, o altri amici, che senza saperlo sono stati per gli anni della mia adolescenza gli espedienti per giustificare le mie uscite. Invece due o tre volte la settimana mi recavo a circa venti chilometri da casa per onorare il mio patto interiore aiutando persone in difficoltà. Una volta abbandonata la casa di famiglia, cioè quando decisi che era ora di andare a vivere da solo, la situazione divenne più semplice da gestire, o comunque le bugie per nascondere le mie ore trascorse a fare volontariato non le raccontavo ai miei genitori, il che mi sembrava meno *sporco* per qualche struttura di pensiero in me formata negli anni. Finché alcuni anni fa decisi di condividere online con un mio vecchio blog (Acme del Pensiero) l’esperienza con i senzatetto a Roma. La decisione di uscire allo scoperto cambiò di conseguenza altresì la mia visione interiore, in altre parole il mio rapporto con il volontariato e con quei due passi del Vangelo.
C’è stato un periodo in cui non sopportavo Benedetto Croce, in particolare il suo “Perché non possiamo non dirci cristiani”, che avevo letto e detestato con tutto me stesso. Ciononostante continuavo a portare dentro me i due passi del Vangelo sopraccitati, ecco la ragione per la quale i dubbi aumentavano, che Croce ci avesse imbroccato e ancora non me ne rendevo conto? Per tranquillizzare l’animo mi tuffavo in due testi: “Perché non sono cristiano” di Bertrand Russell e “L’anticristo” di Friedrich Nietzsche. Malgrado la loro forza concettuale non potevo dimenticare, fra gli altri, tre testi che mi complicarono la vita: “Il concetto di angoscia” di Kierkegaard, “Che cos’è metafisica” di Heidegger e “Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà” di Schelling. Strano, mi dicevo sovente, uno pensa di fregare la tradizione allargando la visuale, conoscendo testi e autori, e invece essa si riversa dentro i pensieri e le emozioni con una forza devastante. E a ricordarmelo, se in certe fasi mi sentivo più forte, era un funerale, una malattia, un matrimonio o qualche amico cattolico e praticante che mi ricordava che il mio essermi sbattezzato (parola orribile, ma che identifica in sostanza quanto misi in opera nel 2001, come spiegato nelle due lettere del post di ieri) era stata una scelta sbagliata. E se fosse stato davvero sbagliato, mi chiedevo.
Finché non incontrai nel mio cammino, una volta uscito dalla casa famigliare, persone ed esperienze che segnarono sul mio derma concetti nuovi, prospettive nuove. Anzi non incontrai, è probabile che tutto fu da me cercato, come quando siamo attratti da una persona e la cerchiamo in ogni modo, per vederla, per ascoltarla, per entrare nelle sue vicinanze. La libertà che prima non avevo avuto a casa o comunque non totale – la giovane età, la gestione del confine del possibile/impossibile dentro l’ambito famigliare e la piccola realtà provinciale vicentina dove vivevo – era divenuta improvvisamente opportunità di frequentare esperienze e persone appunto che mi permisero di indagare le religioni e la spiritualità come meglio credevo, senza freni.
Avevo fatto coincidere il mio paese natio del vicentino, con tutte le sue limitatezze, anche religiose, con una lentezza da parte mia sugli argomenti che più mi interessavano, convinto che scappare da quei luoghi potesse donarmi nuova linfa. E fu davvero “scappare”, perché mi ritrovai dall’altra parte del mondo in senso geografico, lontano migliaia di chilometri dall’Europa, dove rimasi per un periodo della mia vita, libero di fare quel che si dice in gergo gli amati cazzi miei. E fu una sensazione incredibile. Incredibile conoscere persone di altre religioni con grande facilità; incredibile partecipare a incontri ed eventi di ebrei ortodossi e di hippy, di scintoisti e di atei; incredibile conoscere e frequentare un uomo dalle capacità spirituali che destabilizzarono anche la mia ultima e più seria roccaforte razionale; incredibile aprirmi ai miei interessi intellettuali e non solo con continuità e pescando fra le più strane e coinvolgenti consapevolezze.
Incredibile anche trovare ancora persone – nella nuova esperienza di volontariato che stavo vivendo, con un’associazione che si occupava di aiutare le prostitute di strada – che decidevano nel bel mezzo della notte di pregare o di recitare assieme ad altri una preghiera, alla ricerca di conforto. Ecco la seconda parola chiave, dopo solo: conforto.
Una volta ritornato in Italia, sfamati i bisogni di libertà giovanili, ho continuato a incontrare persone con la necessità di preghiera, anche fra le madri che accarezzavano il loro bimbo malato o fra i senzatetto di fronte a un pasto caldo, nel mezzo dell’inverno.
Lunedì riprenderò il discorso, a partire da due concetti: solitudine e conforto.
Di recente ho accompagnato una persona a messa, ho partecipato al sabato santo di Pasqua, e ho pensato, da non credente, alla solitudine e al conforto. Due parole che mi serviranno per rispondere alla domanda del post.
A presto.