Posted 28 novembre 2013 in Balcani Occidentali, Slider with 0 Comments
di Vittorio Filippi
Settanta anni fa, a Jajce, nel cuore della Bosnia, nasceva la seconda Jugoslavia, la Jugoslavia federale e socialista che sostituì quella monarchica dei Karadjordjevic. E che durerà fino alla metà del 1991. Il 29 ed il 30 novembre del 1943 infatti l’AVNOJ (cioè il Consiglio antifascista di liberazione popolare jugoslavo) si riunì nella splendida cittadina medioevale che fu capitale della monarchia bosniaca (prima di essere conquistata dagli ottomani alla fine del Quattrocento) per lanciare il suo progetto di Jugoslavia postbellica.
Il momento era favorevole ed i propositi ambiziosi. L’Italia era capitolata ed il movimento partigiano titoista era sempre più forte militarmente e gradito politicamente (anche agli occhi delle potenze alleate, Gran Bretagna in primis). Tito ed i suoi collaboratori (Kardelj, Bakaric, Mosa Pijade, raffinato intellettuale già compagno di Tito nelle regie carceri) in un paio di giorni febbrili – ma il lavoro preparatorio era già stato svolto dal Politburo – delinearono l’architettura politica ed istituzionale della Jugoslavia post-monarchica (al re Pietro II è infatti vietato il ritorno). E cioè una architettura federale basata su sei repubbliche.
Cemento di questo nuovo jugoslavismo, che riprendeva i vecchi sogni ottocenteschi di Strossmayer e Racki, saranno il carisma di Tito (e della “partigianocrazia”) e l’ideologia marxista. Con l’AVNOJ di Jajce fa capolino anche una malcelata voglia di far da sé e l’insofferenza verso la sospettosa tutela sovietica. In nuce, il tentativo jugoslavo di trovare a tutti i costi un suo originale baricentro strategico ed ideologico, come avverrà ad esempio con l’autogestione e con il Movimento dei non allineati. Infatti a Jajce si consuma già il primo schiaffo a Stalin, timoroso delle reazioni dei suoi indispensabili alleati inglesi ed americani, semplicemente comunicandogli le decisioni a fatti ormai avvenuti. Questo schiaffo, che è prodromico della rottura drammatica del 1948, farà dire ad un irato Stalin che le conclusioni dell’AVNOJ sono “una coltellata alla schiena dell’Unione Sovietica”.
Per quasi mezzo secolo il 29 novembre sarà il giorno della festa della Repubblica, anche se già nella seconda metà degli anni ottanta il paese vivrà un processo destrutturante che disconoscerà tutto l’impianto di Jajce. Lo farà attraverso l’usura veloce del mito di Tito e dell’ideologia marxista. Ed un ruolo lo avrà anche la monumentale Costituzione del 1974, che tentando tutti gli equilibrismi possibili spinse fino al limite estremo lo spirito di Jajce disegnando una struttura semi-confederale del paese che dava una implicita sovranità alle repubbliche e perfino alle due regioni autonome del Kosovo e della Vojvodina.
L’attacco delle armi serbe alla cittadina bosniaca nel 1992 e la successiva offensiva croata nel 1995 simboleggiano bene la distruzione rabbiosa dello spirito jugoslavista della “fratellanza ed unità” che lì soffiò in quel freddo fine novembre del 1943. Lo stesso edificio in cui si tenne la storica sessione dell’AVNOJ fu danneggiato dall’artiglieria leggera. E distrutta fu la casa in cui soggiornò Tito. Oggi si trova, ben restaurato, il museo, ma anche una certa jugonostalgija che raggiunge il suo culmine proprio il 29 ed il 30 novembre di ogni anno quando si celebrano i cosiddetti “giorni dell’AVNOJ” (Dani AVNOJ-a u Jajcu).
La cittadina non è più quel museo ufficiale a cielo aperto che nel passato riceveva delegazioni e gruppi di giovani pionieri e studenti per illustrare (e costruire) una memoria che si voleva a tutti i costi comune ma che ormai è ampiamente rinnegata. Ma chi la visita – e ne vale davvero la pena: Jajce era candidata ad entrare nel patrimonio dell’umanità dell’UNESCO – potrebbe qui riflettere sulle contraddizioni e sulle difficoltà che accompagnano sempre le grandi ideologie integrative. Lo fu per lo jugoslavismo, che qui venne tanto celebrato e che pure aveva radici nobili ed antiche in quell’illirismo evocato da alcuni pensatori croati già nel Cinque-Seicento. E lo è oggi per l’europeismo, assediato dalla crisi e dal populismo euroscettico.
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