“Sette contro Tebe”, tragedia di Eschilo: i fratelli morti in un sol giorno di duplice strage

Creato il 28 febbraio 2014 da Alessiamocci

La tragedia fa parte del Ciclo Tebano e  vi sono gli antefatti della tragedia di Sofocle, Antigone, di cui ho già parlato. Tant’ è vero che l’ultima parte non è attribuibile ad Eschilo, ma  ad un tragediografo più tardo che ha voluto legare la tragedia di Eschilo a quella di Sofocle.

Appartiene ad una trilogia, ossia una sequenza di tre tragedie riconducibili ad un unico filone narrativo; qui si narrava la saga del Labdacidi, i discendenti di Labdaco, nonno di Edipo. “Sette contro Tebe” è l’unica a noi giunta, mentre Laio ed Edipo sono andate perdute, come il Dramma Sfinge, quella del famoso indovinello, che è un dramma satiresco, rappresentato alla fine della trilogia.

La tragedia fu rappresentata alle Grandi Dionisie del 467 a.C. ed una delle più rappresentative del mondo concettuale di Eschilo, primo grande tragediografo greco, inventore della trilogia e anche colui che inserì il secondo personaggio (deuteragonista) e talora il terzo (triteragonista), come nella tragedia in oggetto.

Andiamo ai fatti: alla morte di Creonte, cognato di Edipo e coprotagonista dell’Antigone sofoclea, Eteocle e Polinice hanno stretto un accordo: avrebbero regnato un anno ciascuno, alternandosi sul trono. Eteocle, però, allo scadere del mandato, non vuole restituire il regno a Polinice, sicché costui arma sei guerrieri di Argo, con lui sette, e li pone davanti le porte di Tebe, dalle sette porte appunto, e dichiara guerra al fratello.

Eteocle contrappone altre sette guerrieri, tra cui lui stesso, e li mette a presidio della città. Il messaggero informa che sei di Argo sono stati respinti; resiste Polinice che dovrà scontrarsi con lo stesso fratello Eteocle.

Qui scatta la tragedia, che per i Greci, è dramma personale: Eteocle sa che il volere degli dei impone, Zeus in primis, che essi muoiano in un sol giorno di duplice strage, ma non può che affrontare il destino, la divina Necessità (Tyche), perché questo rientra nelle caratteristiche dell’eroe: solo di fronte al dictat divino.

Sicché la dinamica dello scontro è già nota e in questo sta il senso tragico di Eschilo: l’uomo combatte per quanto sappia che non c’è speranza per lui. D’altra parte, come detto altrove, Eteocle e Polinice appartengono ad una famiglia di maledetti e lui deve pagare non solo per colpe sue, ma anche per quelle dei suoi antenati.

Quale è la colpa personale di Eteocle? Ovviamente la tracotanza (hybris), quella che l’ha accecato di potere e l’ha indotto a non restituire il regno al fratello, ma questo elemento viene quasi sorvolato nel testo tragico e si punta di più sulla maledizione che cade su una intera famiglia, perché questo accresce il pathos di un destino infelice. La hubris non è invenzione di Eschilo, essa risale ad Esiodo, ma mentre qui produceva l’invidia degli dei (phtònos theòn), in Eschilo conduce alla supremazia della giustizia divina (Dìke), che è una vera è propria divinità incarnata da Zeus.

Per il primitivo e religiosissimo Eschilo, Zeus è una divinità spietata ma giusta, quella che riporta l’ordine sulla terra, sicché si può tranquillamente affermare che la visione del mondo eschileo è teocentrica. Il dramma dell’eroe è sempre la solitudine, e, anche se egli viene sostenuto dal Coro, che è poi la città, è solo davanti il suo destino di morte, senza scelta.

La mancanza di libertà, che si intravede in Sofocle, acuisce la dimensione tragica e il conflitto si risolve tra aspirazione alla libertà, che non c’è, e Necessità divina che domina il mondo. Si può dire con Goethe che la vertigine del tragico si raggiunge proprio quando si prende coscienza di questo conflitto davvero insolubile.

Mentre nelle tragedie di Sofocle, l’uomo, per quanto sottomesso agli dei, poteva esprimere parzialmente la sua libertà (Antigone docet), l’eroe eschileo è tutto coatto dalla Necessità, fino al destino sicuro di morte. Questa concezione del mondo viene affidata soprattutto la coro, che ha amplissimo spazio nella tragedia, essendo l’azione ridotta rispetto a Sofocle, sebbene Eschilo abbia rivoluzionato la tragedia, inserendo più personaggi.

Il dinamismo è ridotto, e diffuso e profondo è il compianto del coro, che piange il destino amaro dell’eroe. Quindi, mentre negli stasimi (parti corali) di Sofocle si canta anche la forza dell’uomo (si veda il primo stasimo dell’Antigone), certo finito, ma pur in qualche modo padrone di alcuni aspetti della vita, in quelli di Eschilo si ribadisce la giustizia e infinitezza divina rispetto alla limitatezza degli uomini che sottostanno alle leggi di Zeus.

Written by Giovanna Albi


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