Seventh Code (id.). Regia: Kurosawa Kiyoshi. Soggetto e scenegiatura: Kurosawa Kiyoshi; Fotografia: Kimura Shin’ya; Scenografie: Ataka Norifumi; Costumi: Miyamoto Masae; Montaggio: Takahashi Kōichi; Musiche: Hayashi Yūsuke; Interpreti: Maeda Atsuko (Akiko), Suzuki Ryōhei (Matsunaga), Yamamoto Hiroshi, Aissy; Produzione: Arakawa Yumi per Nikkatsu, Django Film, AKS Co; Durata: 60’; Uscita nelle sale giapponesi: 11 gennaio 2014.
Link: Mark Schilling (Japan Times) - Jay Wessberg (Variety) - Raffaele Meale (Quinlan) - Conferenza stampa al Festival di Roma (Sentieri Selvaggi)
Akiko giunge a Vladivostok alla ricerca di Matsunaga, un aitante connazionale che dice di aver conosciuto a una festa. L’uomo si dimostra inizialmente gentile con la giovane donna, ma la allontana bruscamente quando l’insistenza di lei rischia di compromettere i suoi rapporti con la mafia russa mettendo in pericolo la ragazza stessa. Decisa a ritrovarlo pur essendo rimasta senza soldi e documenti, Akiko si ferma a lavorare in un ristorante giapponese del posto, insieme a una ragazza di origini cinesi. Grazie all’aiuto del gestore, riesce a incontrare nuovamente Matsunaga, ma a quel punto le cose prendono una piega inaspettata e violenta.
L’ultima fatica di Kurosawa Kiyoshi, un mediometraggio di un’ora presentato in tandem con il più breve Beautiful New Bay Area Project al Festival di Roma (che per quest’opera lo ha insignito del premio per la miglior regia) e uscito a ridosso di Real dopo un periodo in cui il regista aveva diradato di molto la sua produzione rispetto ai ritmi frenetici del passato, è un oggetto piuttosto strano. A partire dalla sua ambientazione russa, naturalmente, e in particolare dalla relazione che in esso si instaura tra una giovane donna giapponese dall’aria cocciutamente naif e una banda di loschi figuri autoctoni e non (che, per certi versi e per gli esiti letali della commistione, mi ha ricordato la storia della figlia dello yakuza rapita in Belka, il romanzo di Furukawa Hideo). Altrettanto singolare appare l’accostamento tra la scrittura libera e digressiva del Kurosawa più velleitario (quello di Charisma, Barren Illusion e dello stesso Beautiful New Bay Area Project, per intendersi), e la natura stessa del progetto: un video promozionale per l’ultimo singolo dell’attrice protagonista Maeda Atsuko, ex cantante di punta del più noto super-gruppo di pop-idol giapponesi, le AKB48, di recente convertitasi in stellina del cinema indipendente grazie alle sue convincenti interpretazioni in Drugery Train e Moratorium Tamako di Yamashita Nobuhiro. Sorprendentemente, la AKS Co., società di management delle AKB48 che figura tra i produttori del film, deve aver lasciato piena libertà al regista, se si eccettua il doveroso inserimento della clip della canzone nel finale, perché il film sembra tutt’altro che un impersonale lavoretto su commissione a uso e consumo dei fan della cantante. In esso si esprimono infatti in abbondanza non solo l’ossessione di Kurosawa per location fatiscenti e fantasmatiche che assumono un ruolo cruciale nell’economia del film, ma soprattutto il suo amore per la Nouvelle Vague e per il cinema di genere del passato (nel caso specifico, per il noir e per le spy-story ambientate in un clima da Guerra Fredda). Per sua stessa ammissione, Kurosawa si diverte a sondare la versatilità dell’attrice-cantante, calandola in un contesto che è quanto di più estraneo ci possa essere rispetto allo scintillante universo del pop giapponese: il tutto coerentemente con la poetica del cineasta, che ha sempre avuto, tra i suoi temi fondamentali, l’incontro tra mondi diversi se non antitetici e l’inserimento di individui dotati di una connotazione apparentemente chiara (altrove per via degli attributi conferiti loro da una cornice di genere, qui a causa dell’ingombrante curriculum della stessa attrice protagonista) in contesti a loro estranei e inaspettati che agiscono su di loro e li trasformano. Nella prospettiva della filmografia del regista, dunque, assume perfettamente senso il viaggio di una idol giapponese tra le grigie periferie di una città portuale russa, sulle orme di misteriosi trafficanti di congegni nucleari. Così come assume senso anche l’improvvisa irruzione del cinema di genere, che trasforma in una sorta di “007” quella che in un primo momento sembrava essere una bizzarra storia romantica di ricerca esistenziale incentrata su una bella stalker. Sul finire, dopo aver virato nuovamente rotta tramite l’inserimento dello spezzone patinato del videoclip, l’opera assume le consuete sfumature apocalittiche e ambivalenti nel campo lungo che la conclude (quasi un marchio di fabbrica del regista), interrompendo sul nascere l’accenno di possibili sviluppi da road movie esotico. Il tutto con consapevole spregio della suspense, della verosimiglianza e dell’omogeneità narrativa.
Sulla carta, insomma, c’è di che gioire per i fan di Kurosawa, specialmente se tra i pregi del film si aggiungono anche un’ottima fotografia e una colonna sonora particolarmente evocativa. Ma il risultato complessivo, purtroppo, non soddisfa pienamente le aspettative. Spesso, quando Kurosawa non ingabbia la sua visione del mondo entro la cornice del cinema di genere, le sue opere perdono di mordente e finiscono per apparire eccessivamente fumose, ancorché suggestive. In questo caso, tale cornice è troppo fragile poiché solo accennata (curiosamente è il problema opposto rispetto a un film come Real, rovinato, oltre che da un soggetto abbastanza scontato negli sviluppi, da una sceneggiatura ingombrante e didascalica), e il pur lodevole tentativo del regista di realizzare un film intenso e complesso nell’arco di appena un’ora fallisce in parte rischiando l’inconsistenza e l’impressione di trovarsi di fronte a un divertissement un po’ sterile. Tanto che, per una volta, verrebbe da dire che una mezz’ora in più (che consentisse quanto meno di sviluppare più in profondità il filone della spy-story) avrebbe giovato. Invece ne risulta l’ennesima opera minore, pregevole ma forse memorabile soltanto per la sorprendente scazzottata della Maeda: come in Beautiful New Bay Area Project, che però si spingeva molto oltre raggiungendo risultati anche più degni di nota, si registra un inedito gusto del cineasta per le scene di arti marziali, girate con uno stile raggelato e solenne. Rappresentano forse la novità più interessante del Kurosawa recente, e c’è da augurarsi che in futuro trovino una collocazione di più ampio respiro e di maggiore equilibrio. [Giacomo Calorio]