L'ho evitata accuratamente fino a ieri pomeriggio. Snobismo, forti pregiudizi sul curatore, allergia alle ammucchiate maggioritarie spacciate per democrazia. Insomma, dopo la notizia che la prorogavano di un mese e che tanti miei concittadini l'avevano già vista, pare persino con soddisfazione, la mia innata curiosità ha finalmente prevalso su tutte le possibili riserve. Mi riferisco alla sezione torinese del Padiglione Italia della 54esima Biennale di Venezia curato da Vittorio Sgarbi.
Sfidando il freddo davvero intenso della Sala Nervi, mi sono buttato a capofitto nel mare magno delle opere realizzate dagli oltre settecento artisti selezionati. Il primo impatto è stato quello di trovarsi dentro una specie di Porta Palazzo dell'arte: tanti banchi, tante merci esposte d'ogni tipo, qualità e provenienza. Ma pazienza: al mercato ci si va anche per passare il tempo e scoprire l'inatteso.
Va detto subito: mi sono divertito. Come un bambino, come quando venivo al Torino Esposizioni a ritirare il regalo di Natale per i figli dei dipendenti FIAT. Una giostra dietro l'altra di colori, forme, luci senza altro legame tra loro che il puro accostamento abbastanza casuale o, al massimo, tipologico: qui le ceramiche, lì le fotografie, laggiù le installazioni, ecc. Su tutto il biancore elegante, inarrivabile della Sala Nervi, contenitore in grado di dare sempre il massimo risalto ad ogni tipo di esposizione.
Quindi, spostando magari la data verso primavera, per motivi puramente climatici, capisco che si pensi di ripetere l'esperienza e mi diverte che si voglia chiamarla Babele. Lo è davvero una babele. Anzi è una specie di bazar di tutto ciò che si pensa in genere possa chiamarsi "arte". Deve essere estroso, colorato (pop, tardopop, minculpop...), ben fatto (la sapienza artigianale sento dai commenti attorno a me che viene molto apprezzata), poi se sembra realizzato dal cappellaio matto di Alice allora siamo al "top". Ci credo che sia un bel Luna Park per famiglie: puoi non aver mai studiato una mazza di storia dell'arte e non sapere nemmeno che esista una cosa chiamata "arte contemporanea" senza che questo provochi alcuna irritazione cutanea da ignoranza postscolastica. Basta che piaccia questo invece di quello e la visita va via liscia, senza conseguenze.
Nella curatela di questo Padiglione Italia torinese leggo una illusione (anzi un illusionismo) populista: la vita è semplice, sai già tutto quello che ti serve, non devi pensare ad altro che passare meglio che puoi il tempo che ti rimane da vivere.
Peccato che dietro le opere ci siano persone. Persone che per fare quelle opere impegnano la loro esistenza e che avrebbero necessità di trovare riscontri diversi, ben più meditati, per progredire nel loro lavoro. Esporle a mucchi, non importa come, purché poi possano rimpinguare il loro curriculum con l'ambitissima frase: "Partecipa alla 54esima Biennale di Venezia", è un inganno narcisistico per tutti: per chi li butta in questa bolgia, per chi è contento di esserci e per chi si bea di andare a passeggiarci. Ci vedo il ritratto di un paese vanitoso che muore piuttosto di guardarsi veramente nello specchio per cercare di capire quello che è diventato. In questo senso Sgarbi compie un'altra acrobazia delle sue: maligno e benigno al contempo. Si diverte, e ci diverte, mettendoci sul palcoscenico sociologico della nostra insufficienza. Ci coccola nei difetti e così li fa emergere. Questa Biennale "democratica" verrà penso ricordata dai posteri per aver dimostrato che oggi l'arte non è davvero cosa nostra, non più.
I miei appunti fotografici su Sgarbissima (così ho ribattezzato l'evento, con evidente riferimento parodistico ad Artissima) sono QUI.