Shane Carruth: Upstream Color
Creato il 05 settembre 2013 da I Cineuforici
@ICineuforici
Upstream Color
(Usa 2013, 96 min., col., fantascienza, drammatico)
Se
il cervello dello spettatore si era fuso di fronte all’opera prima di Shane
Carruth Primer, con Upstream Color esso si ri-solidifica in
un’altra forma ben lontana da quella consona per un essere umano.
Trama?
Di
solito, il secondo paragrafo delle mie recensioni sono dedicate alle trame, ma
questa volta mi trovo in un’impasse:
qual è la storia di Upstream Color?
Sarebbe riduttivo scrivere un riassunto, pertanto ci si atterrà alla sinossi
rilasciata per i vari festival: “Un
uomo e una donna sono indissolubilmente legati al ciclo vitale di una creatura
senza età che li priva della loro identità e li costringe a rimettere insieme i
frammenti delle loro vite distrutte”. Se si aggiunge che di mezzo c’è
anche Kris l’artista drogata (Amy Seimetz) a causa all’ingerimento di una larva
che vive fra le radici delle orchidee (il regista fa della dipendenza da
materiale estraneo una sua chiave narrativa ed è presente anche in Primer), un allevatore di maiali che fa
dei trapianti fra uomini e suini per liberarli dalla suddetta larva, un broker
fallito (lo stesso Shane Carruth) che instaura una relazione con la
protagonista e che soffre del suo stesso mal di vivere, c’è davvero di che
rimanere sconcertati. Ma tutto questo è solo la superficie…
Connessioni
Il
secondo lungometraggio di Shane Carruth, dieci anni dopo il trip mentale Primer, è una vera bomba. La trama suddetta è ricavata dal
tentativo perenne dell’uomo di spiegare tutto, per rendere tutto più chiaro,
per sintetizzare e così via. Carruth c’insegna prima di tutto a vedere e a
sentire, poi a capire, ma solo se si vuole. Bisogna apprezzare quello che si
vede e che si sente, i sentimenti che ne scaturiscono perché si è al di là
della razionalità e più vicini alla pancia oltre che al cuore. I legami che
s’instaurano fra le varie inquadrature, sono connessioni emozionali e al
massimo analogiche. Non si procede logicamente, ma sul piano della sensibilità.
Ho compreso tutto? No. Mi è piaciuto? Moltissimo. Sembra una contraddizione, ma
non lo è. Si è vicini a The Tree of Life di
Terrence Malick? Vagamente, perché l’impressione è che Malick realizza un film
per pochi (e per autocompiacersi aggiungo io, ma questa è un’altra storia),
mentre Carruth realizza, parafrasando Nietzsche, “una pellicola per tutti e per
nessuno”: tutti possono vederla e interpretarla, ma nessuno è in grado di
cogliere tutti i suoi enigmi. I tentativi di seguire tutti i piani di lettura
in una sola visione sono destinati a fallire, perché la mente umana, per amore
di sintesi, sceglie una pista, che si tratti della storia d’amore fra la
protagonista e il broker o quella dell’allevatore di maiali, o ancora, la
vicenda dell’orchidea e delle larve. In realtà tutto è legato da un sottile
filo che si vede e non si vede: si vede con l’occhio, ma non si vede con la
ragione. È un mistero naturale, intriso di biologia e botanica, che parte dal
“grande” per arrivare all’infinitamente piccolo laddove tutto è collegato, a
differenza di The Tree of Life dove
tutto era collegato, ma partiva dal “piccolo” per arrivare all’infinitamente
grande spaziale e temporale (la scena dei dinosauri, ahimè, non si può
dimenticare facilmente).
Mostrare le
connessioni: analogie deviate e punti di vista multi-visivi
Curreth
ha realizzato Primer e Upstream Color con dei budget davvero
infimi (si parla di settemila dollari circa per entrambi). È autore,
produttore, regista, attore, compositore e anche operatore di macchina.
Notevole super-ego? No, cinema underground.
Più indipendente di Carruth, e allo stesso tempo lontano da tutte le commedie indie alla Sundance (nonostante la sua
partecipazione), non c’è nessuno. Fa film per se stesso? No, fa film per tutti
quelli che reagiscono alle emozioni, ai suoni e alle immagini, ossia nessuno. Come si districa Carruth in questo
grumo di piani di lettura? Con un’estetica dell’immagine magistrale. Le
connessioni fra le immagini, sono legami per “analogia deviata” e il punto di
vista è multi-visivo. Se, per esempio, il legame fra il maiale e la
protagonista sono evidenti nella vicenda (operazione, nome attribuito al suino
ecc.), meno lo sono le implicazioni narrative. Il fatto che la protagonista non
possa avere figli è analogicamente riportato all’uccisione della cucciolata
avuta dal maiale Kris (è il nome dell’artista) e dell’altro maiale (anonimo, ma
si suppone essere il broker). La genialità di Carruth, insomma, risiede nella
decisione di non accoppiare in montaggio, in tal caso, l’immagine di maiali che
non riescono ad avere la cucciolata con l’immagine della coppia dei
protagonisti, per far capire logicamente allo spettatore che si tratta degli
stessi enti. Il regista, invece, associa l’impossibilità di avere figli con
l’uccisione della cucciolata da parte dell’allevatore, cosa che razionalmente
stonerebbe. Certo, razionalmente, ma non emozionalmente, anche perché
l’allevatore che uccide la cucciolata è lo stesso che opera Kris salvandola da
un cancro, ma impedendogli così di avere figli. L’uccisione e l’“eliminazione
degli organi genitali femminili” sono, dunque, così associati creando
un’analogia, ma deviata.
Un’altra
caratteristica di Upstream Color,
oltre alla sorprendente sonorità (quasi al di là della musica) e alla povertà
di dialoghi, è il punto di vista multi-visivo. Una stessa sequenza, quasi fosse
un clip musicale, è riproposta da più angolature. Lo scopo non è quello di
accentuare il ritmo o dare musicalità alla visione, come potrebbe essere il
caso di un videoclip, ma di mostrare un punto di vista onnipresente. Lo sguardo
è quello di un’essenza, l’infinitamente piccolo di cui sopra, che vede tutto e
tutti da tutti i punti di vista. È un’essenza quasi divina che potrebbe essere
associata alla visione dello spettatore o dell’allevatore, ma che in realtà va
al di là di essi e che mostra (non spiega) l’inspiegabile all’uomo.
Tutto
chiaro? No? Allora avete colto quest’essenza.
Mattia Giannone
Potrebbero interessarti anche :