Sharunas Bartas. Il cinema della caducità e la realtà come visione (prima parte)

Creato il 27 luglio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Assai noto tra i cinefili massimalisti e gli esegeti del cinema d’autore e dei circuiti alternativi, e per converso ignoto al pubblico di maggiore consumo, Sharunas Bartas è un mistico dello sguardo e un autore ontologicamente radicale e manicheo, ermetico e scontrosamente elitario. Quasi non per caso, Bartas viene da un paese marginale ed isolato come la Lituania: marginale ieri, negli anni dell’egemonia sovietica, ed isolato oggi, nel panorama geopolitico eurasiatico, pure se con un glorioso passato ed un ricchissimo orgoglio nazionale. Cinematograficamente, la Lituania è un paese di feconda tradizione nel genere del documentario ma assai povero nella realizzazione di opere a soggetto (nel genere, si segnalano soltanto gli importanti lavori di Vitautas Zalakjavicius, Arunas Jebrunas, Algirdas Araminas, Raymondas Vabalas e Almantas Grikiavicius), al punto che proprio Bartas appare come il primo cineasta che abbia declinato il suo mestiere entro i principi formali di un’estetica d’autore. A ogni modo il suo lavoro deve moltissimo alla tradizione documentativa del cinema lituano, e quasi ne è il precipitato di tramandazione linguistica: certamente Bartas non mutua pedissequamente dal genere, ma riformula continuamente il documentario attraverso il mistero di uno sguardo poetico sul mondo; così, la sua fenomenologia lirica ed intuitiva fa sì che la realtà appaia sconosciuta, frammentata, aliena da qualsiasi riferimento mimetico, per divenire “soprattutto universo mentale”. Al suo cinema della caducità presiede il minimalismo fabulatorio, l’abdicazione alla parola in favore del paesaggio e del silenzio come principi assoluti: la tecnica di composizione si avvale di sequenze statiche, lentissime, violentemente fotografiche, pure se disincarnate dalla minaccia della calligrafia e dell’estetismo. In Bartas l’immagine dice sempre altro: il suo mondo è nella percezione del mondo e nella soggettivizzazione di un complesso canone di elementi plastici e naturali (come la luce e il suono). In questo senso, il suo cinema è un paradigma del principio del correlativo oggettivo, quel concetto poetico elaborato nel 1919 da Thomas Stearns Eliot, che definì come “una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare[1]”. Nell’abbandono dei personaggi di Bartas ad un universo di pura percezione, anche i concetti e i sentimenti più astratti trovano la loro espressione (si “correlano”) in oggetti ben definiti e concreti del quotidiano, facendo sì che la metafora si reifichi ininterrottamente e si riconduca alla materia evadendo dalla contemplazione estatica: un cinema dialettico e partecipato per il margine di esperienza che esso mutua dalla realtà concreta in favore dell’intuizione emotiva, in quanto “la percezione è più realistica della parola[2]”, declinando la narrazione e muovendo ad un paesaggio radicale di metafore e simboli che realizzano un autentico “impero interiore”. Così si pone la questione dell’occhio come strumento primario della percezione, luogo di equilibrio e di colluttazione tra l’intensità della luce e il precipitoso dominio dell’oscurità, limite radicale tra introflessione e realtà sensibile, paesaggio di scontro fra l’aggressione dei primissimi piani e la lontananza dissolvente dei campi lunghi, cristallizzazione dello sguardo come principio assoluto di ogni cosa. Allo sguardo non seguono che sguardi: interrogativi, dolenti, minacciosi, carezzevoli; così che il cinema sappia mostrarli ma non possa comprenderli fino in fondo, fissando quella sua stessa fissità che è incapace di tradurre. È opinione corrente che il cinema filosofico e riflessivo di Bartas abbia definitivamente abbandonato i riferimenti concreti alla realtà per la pura esistenza di un universo emotivo alieno e atemporale; in realtà il suo cinema è il punto di non ritorno del realismo, un realismo archetipo, primario, materico, talmente sovrastante (e oggi non naturale) da assumere la fisionomia di un canto lirico. La contemplazione del mondo così com’è ha finito per apparire inquietante, espulsiva, demoniaca, catartica. In Bartas, la natura è narrazione: così il suo cinema non è affatto visionario (in quanto non riconduce la realtà alla visione) ma piuttosto è un cinema della realtà come visione, come universo compiuto, come interpretazione intuitiva delle emozioni. L’uomo stesso è materia, in una visione olistica – pure quando affranta e dolorosa – totalmente improntata al panteismo della natura (cui contribuiscono grandemente i suoni in presa diretta che scandiscono e partecipano la composizione dell’inquadratura) e, cinematograficamente, ad una ricerca sul linguaggio che costituisce una complessa grammatica della sospensione intima e personale, attraverso l’assenza del dialogo, i campi lunghissimi alternati ai primi piani, l’ossessione per il paesaggio (ossessione ontologica, diversamente che dal recente cinema di Straub in cui la natura serve comunque il discorso intellettuale), il ritmo lento, la scansione rigorosa dei piani sequenza, estenuanti e votati ad una immobilità quasi paradossale (e nei quali Bartas è maestro al pari dei contemporanei Tsai Ming-Liang, Bela Tarr e João César Monteiro, autori con in quali il lituano condivide una visione del mondo), decostruzione del dispositivo canonico della narrazione. Un cinema primitivo, talmente arcaico e fuori storia da apparire spaventosamente moderno.

Sharunas Bartas nasce a Siauliai, in Lituania, il 16 agosto 1964. Il suo primo lavoro, che gli consentirà l’accesso al VGIK di Mosca, è Tofolaria (1986), un documentario su una delle ultime popolazioni autoctone siberiane. Realizzato con mezzi ancora amatoriali, il film si impone per la forte personalità del suo autore e per un poetica già ampiamente delineata, così come poi appare nel lavoro di diploma, il mediometraggio documentario Praejusios dienos atminimui (1990), capolavoro di osservazione di un marionettista di strada dall’alba al tramonto lungo le strade e i volti di una città baltica segnata dalla storia e colta attraverso un tempo sospeso e reiterato che sembra non avere mai fine. E proprio la poetica bartassiana della sospensione qui ha il suo folgorante esordio: i gesti degli abitatori della città pare si levino da un mondo dimenticato, le immagini sorgono come ombre spettrali, epifanie irrelate da ogni storia, in un tempo di monotona coazione e tragica memoria. Sul film è stato scritto che “l’inizio ricorda L’Atalante (di Jean Vigo, nda). Il lungo corteo di uomini tutti uguali e vestiti di nero, che camminano sul marciapiede quasi sfiorando il muro richiama alla mente la malinconia dei pochi invitati al matrimonio raccontato da Jean Vigo. Poi spariscono, però, nel nero di un portone anonimo. Nel frattempo la strada si è animata di presenze, di passanti e di auto, con i loro rumori accentuati ed esaltati, forse un poco distorti, messi subito in primo piano, che riecheggiano come dentro un’enorme spazio vuoto. Ci si accorge che non si può ragionare in termini di alternanza o di opposizione tra il dentro e il fuori, dal momento che ai rumori della strada si mescolano subito quelli di una funzione religiosa. Come stare in due luoghi nello stesso tempo, nel buio di una chiesa e nel fragore luminoso di una città appena sveglia, circondata di campi e alberi ancora spogli. Suoni e rumori che accompagnano il cammino frettoloso di una donna e del suo bambino attraverso una strada polverosa. Li riconosciamo. Sono le stesse figure timide intraviste sui titoli di testa, ma allora erano in viaggio su un campo ghiacciato, segnato dalle crepe del disgelo. Ora appaiono e scompaiono, proseguono il loro cammino, mentre lo sguardo di Bartas (e quindi il nostro) si concede punti di osservazione diversi, si sofferma sul volto di vecchi e bambini, asseconda il loro sguardo impertinente che punta l’obiettivo e si fa, ancora una volta, interrogativo. Diario di un giorno che volge al termine e si ripiega su se stesso, come l’organetto riposto nella custodia e il burattino che pare chiudere gli occhi. Nel controcampo c’è la vetrina del negozio di un fotografo con un ritratto di Lenin, la testa fra le mani. Sul vetro si specchia l’edificio oltre la strada. Un uomo rientra in casa sulla sua carrozzina, poi la neve, e di nuovo un paesaggio di ghiacci sciolti che galleggiano. O forse sono nuvole specchiate sulla superficie dell’acqua”. Negli anni del suo esordio, che coincide con il doloroso passaggio della Lituania dall’assoggettamento sovietico all’indipendenza, Bartas fonda la sua casa di produzione Kinema Studija “dando vita alla rinascita del cinema lituano e al circuito di registi indipendenti (tra cui Vildziunas, Stonys, Matelis)”.

Nel 1991 Bartas volge il suo sguardo realisticamente distorto su Kaliningrad, importante porto russo sul Baltico oramai decaduto assieme al regime, e realizza il suo primo lungometraggio, Trys dienos.

Due amici si mettono in viaggio dal loro villaggio lituano verso la città di Kaliningrad, ex Koenigsberg. Lungo la strada hanno l’avventura di incontrare due ragazze russe, con cui proseguono il viaggio. Insieme cercano rifugio in un albergo della stazione, in una casa parzialmente distrutta; dormono per cantine e in strani appartamenti. Ma ben presto i rapporti tra i quattro mutano fino alla degenerazione.

Selezionato e premiato al Berlin International Film Festival, Trys dienos rivelò ai critici e ai cineasti europei il talento di Sharunas Bartas. Il film è in qualche modo il paradigma osmotico della poetica del suo autore, il catalogo di un archetipo cinematografico disturbante ed eversivo. Lo sguardo di Bartas si volge alla descrizione poeticamente fenomenologica di una generazione oppressa dalla decadenza e giunta al collasso; entro i termini dell’opera di confine, il regista impone una sconvolgente stratigrafia della solitudine e della repressione. Le lentissime sequenze formano un canone sfinitamente elencatorio dell’ecatombe sociale: le immagini delle fabbriche, i rumori del porto, la desolazione della città (luogo anfibio, la russa Kaliningrad, che in realtà è la ex tedesca Königsberg annessa alla Russia dopo la guerra), il girovagare dei due protagonisti tra edifici fatiscenti, alberghi inospitali e seminterrati disadorni, una catabasi imperturbata che si compie nella silenziosa paralisi di un limbo senza scampo. La solitudine primordiale di questi fantasmi in carne ed ossa è una condizione ontologica: i loro pensieri sono oscuri, appena sussurrati, le loro azioni enigmatiche. Per Bartas il contrappasso del dolore è nel corpo: volti incavati dalle rughe, barbe lunghe e incolte, fisici stremati dalla miseria e dal male di vivere che arrancano senza sosta fino alla consunzione del nulla. Persino il tentativo di fuga dei due protagonisti naufraga in una soggezione verghiana al destino, così che “alla fine non resta che l’esplosione di pianto della ragazza per presa coscienza del proprio stato esistenziale”. Non c’è dialogo, e del resto quasi non ce n’è bisogno: semplicemente, le crude immagini del paesaggio umano raccontano una storia di anime erranti e di sguardi perduti in un non-luogo e in un non-tempo spaventosamente contemporaneo, pure se con la poesia della rarefazione che Bartas imprime alla pellicola abdicando alla mera brutalità radiografica delle cose. Ancora il tema della sospensione, al punto che persino i luoghi fisici, ammantati da una fredda luce che balugina fino alle ombre, esistono quasi solamente come paesaggi mentali, proiezioni psichiche che sfuggono alla realtà dei corpi per diventare sfumature; e la trasmissione interiore dei sentimenti rinuncia al linguaggio in favore della realtà come percezione assoluta, sia pure una percezione della totale estraneità (una non appartenenza) dei corpi al mondo degli uomini. Soprattutto nei volti e negli occhi vi è sempre un elemento sfuggente, un senso profondissimo su cui fa difetto ogni ermeneutica, un percorso emozionale che suggerisce senza enunciare: contro l’idea di un cinema che dica tutto, rappresentando la realtà attraverso la realtà, Bartas partecipa al mondo cogliendo un’umanità di tracce che dicono l’impossibilità di dire, in sostanza l’uomo e il suo mistero sacro. Il regno fisico del film censisce metaforicamente la condizione umana come luogo della caducità, che così esige un linguaggio totalmente altro dai modi tradizionali della narrazione (il sistema di significazione convenzionale, sia esso razionale o percettivo): Bartas rovescia la mitologia degli usi della narrazione tradizionale facendo dei tempi morti la sostanza del suo cinema (con le sue inquadrature statiche e quasi ipnotiche) che si accosta all’esperienza umana con un pudore che sovverte eticamente gli abituali effetti della pornografia emotiva del cinema di consumo: l’uomo attraversa il mondo, semplicemente (così come nel film che si apre col piano fisso di un treno che attraversa la campagna e si chiude con l’immagine di un ultimo viaggio).

Proseguendo nel suo percorso estetico di capovolgimento della concezione temporale classica in favore dell’universo concentrazionario della dimensione mentale, nel 1995 Bartas realizza Koridorius, il suo capolavoro, girato in un unico ambiente chiuso ed isolato, che vince anche un premio al Torino Film Festival. Ancora una volta, la poetica anticonvenzionale dei tempi morti come sostanza fondativa del cinema conduce ad una rappresentazione della vita quotidiana degli inquilini di un casermone fatiscente alla periferia di una città lituana. Nel corridoio del titolo, archetipo del transito, si affacciano le stanze di un’umanità struggente che attende il nulla, come fuori dalle finestre verso un paesaggio gelido e inospitale. La raggiunta indipendenza della Lituania dall’Unione Sovietica pare non abbia in alcun modo corretto le condizioni di ineluttabile miseria e di desolazione spirituale del popolo (tra gli altri, un ubriaco reduce da una festa, inquilini poveri e impauriti, fanciulli che giocano in cortili degradati, uno dei quali, in una bellissima sequenza, viene continuamente spinto in una pozzanghera) che rimane sempre sulla frontiera di se stesso così che “i gesti dell’equilibrista paiono folli a chi non sa che egli cammina sul vuoto e sulla morte[3]”. Lunghissimi piani sequenza scandiscono la spaventosa quotidianità degli abitanti che si affacciano sul corridoio, totalmente muti se non per i rumori di fondo della natura, calato in un rigorosissimo bianco e nero di ascetico splendore. Un cinema meditativo e stremante (alcuni piani sequenza sui volti durano quasi 10 minuti) e altrettanto un cinema che si interroga sul senso di sè stesso.

Beniamino Biondi

[1] Thomas Stearn Eliot, The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism, London, Methuen, 1920.

[2] Da una dichiarazione di Sharunas Bartas.

[3] Jean Cocteau.


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