"is the Napoleon of crime, Watson. He is the organizer of half that is evil and of nearly all that is undetected in this great city. He is a genius, a philosopher, an abstract thinker. He has a brain of the first order. He sits motionless, like a spider in the center of its web, but that web has a thousand radiations, and he knows well every quiver of each of them.” ( Sherlock Holmes, The Final Problem, Arthur Conan Doyle)
Il Professor James Moriarty non è
un avversario comune: l'iconica nemesi di Sherlock Holmes, assoldata da Sir
Arthur Conan Doyle allo scopo di eliminare un protagonista talmente famoso e
amato da essere divenuto scomodo e ingombrante, ha sempre affascinato la
cultura popolare ben oltre i limiti imposti dalla pagina scritta, colpevole di aver
esaurito la figura del villain nelle poche pagine del racconto
"The Final Problem"(presente
nella raccolta
Le Memorie di S. H. );
difficile trovare un adattamento che abbia resistito alla tentazione di ampliare
il più possibile la storia del Napoleone del Crimine, per regalare ad Holmes
uno scontro degno di questo nome e
portare sotto i riflettori le leggendarie Cascate di Reichenbach, iconico luogo
dove il Detective sembra perire insieme al suo nemico e che fa venire i brividi
a tutti gli appassionati del Canone.
Col terrorizzante nome di
Moriarty pronto a far capolino sin dal primo episodio, sapevamo che anche per
lo
Sherlock della
BBC il momento
della resa dei conti sarebbe presto arrivato: ciò che ignoravamo era che Steven
Thompson, terzo sceneggiatore della serie spesso considerato la penna più
debole del team(per alcune ingenuità in
The
Blind Banker, suo precedente episodio), sarebbe stato in grado di costruire
la complessa architettura di un finale tanto splendido ed efficace, pronto a
sorprendere e commuovere come mai prima.
Concepito come il lungo flashback
di un distrutto John Watson(Martin Freeman) , ritornato da quella terapista che
ben 18 mesi prima era stata resa inutile dall'incontro con Sherlock(Benedict
Cumberbatch),
The Reichenbach Fall
rompe gli indugi svelando subito ciò che fu per i primi lettori di Doyle uno
shock senza precedenti: Sherlock Holmes è morto, lasciando l'amico John a
sopportare il peso di un mancanza talmente dolorosa e assurda da dover essere
quasi rinnegata, come un brutto incubo dal quale è ancora possibile svegliarsi
(”You... you told me once that you weren't a
hero. Umm, there were times I didn't even think you
were human. But let me tell you this, you were the best man, the most human...
human being that I've ever known, and no-one will ever convince me that you told
me a lie, so there. I was so alone, and I owe you so much. But, please, there's
just one more thing, one more thing, one more miracle, Sherlock, for me. Don't
be... dead. Would you do that just for me? Just stop it. Stop this.).
Se il disappunto dei fan
vittoriani per la fine di Holmes fu tale da costringere il suo autore a
rimediare con una lesta resurrezione, oggi sappiamo per certo che la salvezza
del personaggio non è più in discussione, ma continuiamo egualmente ad
attendere questo momento con impazienza non tanto preoccupati per il destino
del Detective quanto per il povero Dottore, lasciato nello sconforto e tenuto
all'oscuro di un disegno che puntualmente vorremmo rivelargli.
Eccoci allora 3 mesi prima dell’evento,
quando tutto sembra andare per il meglio e la fama di Sherlock,
indissolubilmente legata all'eccezionale ritrovamento del quadro " Le
Cascate di Reichenbach " di William Turner( furbo stratagemma per introdurre
la location senza davvero utilizzarla), è in costante ascesa.
Quando le
sorprendenti capacità di Holmes sono ormai universalmente riconosciute Jim
Moriarty(Andrew Scott) torna in scena in grande stile, usando una misteriosa
chiave d'accesso per violare la sicurezza di tre dei luoghi più blindati del
Regno Unito: la Torre di Londra, la Banca di Inghilterra e la Prigione di Pentonville
restano improvvisamente prive di protezione, mentre il Criminale attende
comodamente l'arrivo degli agenti sulla sedia dell'Incoronazione deciso a farsi
arrestare.
Dopo un processo farsa che gli
rende la libertà in breve tempo, con la pazienza di un ragno( nelle parole di
Sherlock e dello stesso Conan Doyle) Moriarty continua a tessere la sua tela
per raggiungere l'obiettivo a lungo prefissato di schiacciare l’avversario, non
grazie a una rapida morte ma a una totale e irreparabile distruzione della sua
reputazione: Sherlock Holmes è solo un impostore, l'uomo comune che ha assunto
un attore di nome Richard Brook per impersonare il ruolo di Moriarty,
null'altro che una persona ordinaria con manie di protagonismo alla ricerca di
notorietà; le capacità deduttive di Sherlock sono troppo straordinarie per
essere vere ed è più facile credere che non siano mai esistite, piuttosto che
accettare la realtà.
Dopo aver compreso che la Corsa
di Moriarty potrà fermarsi solo col
suicidio del finto Detective, pubblica
ammissione di colpa per la grande menzogna raccontata, Sherlock si presenta sul
tetto del St Bartholomew's Hospital ed affronta il suo avversario, certo di
poter scambiare il codice di accesso a tutti i sistemi di sicurezza che ogni criminale
di Londra sta disperatamente cercando: auspicando un finale degno delle sue
aspettative Moriarty è pronto a rispondere ad arte mettendo sotto tiro John,
Lestrade(Rupert Graves) e Mrs Hudson( Una Stubbs) per farli uccidere all’istante
se Sherlock si rifiuterà di saltare dall'edificio; per essere sicuro che il suo
avversario non possa risalire al comando necessario a fermare i suoi cecchini,
Jim Moriarty esce di scena sparandosi un colpo alla testa, costringendo quindi Holmes
a mettere fine alla sua vita per salvare i suoi amici.
Precipitatosi sul posto dopo
essere stato allontanato dallo stesso Sherlock con uno stratagemma( qui è un
presunto incidente mortale a Mrs Hudson, sulla carta era la malattia improvvisa
di una Signora sconosciuta), John riceve una straziante telefonata dall'amico:
la confessione fra le lacrime di aver mentito sin dall'inizio e un ultimo addio
prima di saltare nel vuoto sotto gli occhi atterriti del fido Watson.
La parola fine sembra così
scritta sulla lapide di Holmes, suggellata dal saluto militare che John riserva
al compagno d'avventure che l'aveva salvato dalla solitudine: sopravvissuto
alla caduta in circostanze sconosciute Sherlock rimane in disparte, guardando l'amico allontanarsi.
C'era una volta un detective
brillante e solitario
(“Alone is what I
have, Alone protects me”), talmente sicuro delle sue capacità da essere
disposto a rischiare la vita pur di provare la propria superiorità
intellettuale: il sociopatico iperattivo di
A Study in Pink sembra molto lontano dall'uomo che abbiamo visto in
The Reichenbach Fall, deciso a
gettare via nome e reputazione per seguire le ragioni del cuore.
Anche se privata della
spettacolare location delle Cascate, la soluzione del "problema
finale" offerta dalla seconda serie di Sherlock non solo conserva il
fascino dell'originale, ma piuttosto amplifica l'epicità dello scontro con un
intreccio ricchissimo, abile a mischiare le classiche trame della lotta fra
bene e male con le ambizioni di un thriller dal sapore quasi Nolaniano: l'eroe
getta la maschera e sacrifica il simbolo positivo che incarna per proteggere un
bene superiore, mentre quel mondo che non era pronto ad accoglierlo sceglie di
abbracciare la menzogna solo perché è più facile convivere con la mediocrità
che con l'eccezione.
In una non troppo velata critica
al potere dei media e alle morbose manipolazioni della stampa (forse il più
eclatante punto debole di cui soffre il Regno Unito) Thompson fa un balzo degno
del miglior cinema di genere, riservando al famigerato Genio del Crimine un
congedo sconvolgente: molti troveranno il suo suicidio una forzatura
imprevista, ma quando Moriarty comprende che Sherlock non è più un affascinante
Doppelgänger ed è pronto a mettere gli affetti al di sopra di tutto, la sfida
perde improvvisamente d' interesse e la fine è l'unica soluzione auspicabile(“
Every fairy tale needs a good old-fashioned
villain. You need me or you're nothing. Because we're
just alike, you and I, except you're boring. You're on the side of the
angels”).
La prova di Andrew Scott,
vincitore del BAFTA come migliore attore non protagonista, è impeccabile, ma il
controllo della scena rimane ancora una volta ben saldo fra le mani del gigantesco
Sherlock di Benedict Cumberbatch: il suo addio a Watson, ancora più straziante perché
raccolto per telefono e non per lettera, è una scena che porteremo nel cuore
per molto tempo e dinanzi alla quale le lacrime sono quasi inevitabili;
dall'altra parte della strada, un attonito Martin Freeman completa l'episodio
grazie a una performance perfettamente in sintonia col suo personaggio, leale fino
alla fine contro tutto e tutti
( “I know
you for real”) e pur trattenuto dinanzi alla morte dell'amico, costretto a
lasciare che il contegno militare e la sua indole introversa prendano il
sopravvento per sopravvivere alla sofferenza.
Sappiamo per certo che Sherlock è
sopravvissuto e che la dolce patologa Molly Hooper( Louise Brealey) ha avuto un
ruolo determinante(il Detective le chiede aiuto poco prima di affrontare
Moriarty), ma questo non rende la ferita meno dolorosa: abbiamo bisogno che
Sherlock e John tornino subito da noi, di nuovo insieme, di nuovo uniti più che
mai.
Il countdown per la terza serie,
prevista per l'autunno 2013, è già iniziato.