Sherlock Holmes: gioco di ombre

Creato il 23 dicembre 2011 da Veripaccheri


Kiarostami ne teorizzò l'importanza per ovviare ad una messinscena altrimenti immota. Stava girando "Dieci" ed il film avevacome unico motivo di interesse le conversazioni di una decina di personaggi alternativamente all’interno di una macchina che procedeva lungo le strade di Teheran. Il veicolo, con il suo moto era lo stratagemma per movimentare un quadro altrimenti paralizzato da quei dialoghi. Anche lui, certamente non un cultore del cinema dinamico si poneva il problema di adeguare la fruizione del suo film ad un pubblico immerso ogni giorno in una realtà in continuo divenire e quindi poco propenso ad un disegno che si presentasse sempre uguale a se stesso. In quel caso si trattava di dare forma ad una sostanza che era pregnante, densa, ma a basso contenuto cinetico, renderlo insomma vicino all’idea di un cinema commercializzabile.Al contrario Guy Ritchie è un tipo che non si è mai fatto pregare in quanto a movimento e da quando siamo stati abituati a frequentarlo non c’è mai stato un momento in cui non abbia infarcito le sue torte con ritmi scoppiettanti ed accelerazioni al fulmicotone, sia in senso temporale, quando era necessario riportare in luce dettagli utili alla comprensione della trama, che spaziale, con l’intento di sciorinare le qualità balistiche ed acrobatiche dei suoi antieroi, oppure ad arrovellarla ancor di più, con l'aggiunta di particolari sempre nuovi, un accumulodi dati che riproducevano una modernità in overdose di messaggi. Erano i tempi di "Lock e Stock", ma anche di "Snatch". L'artista era ancora affamato di successo a di quattrini che cercava di rincorrere con un pulp adeguato alla ruvida guasconeria di un proletariato inglese emancipatodalle depressioni dei vari Loach e Leigh ed intento ad esorcizzare le proprie sventure con lo sberleffo di una risata un po’ sguaiata. Poi c'è stata Madonna, qualche film improbabile, ed infine un ritorno da figliol prodigo con il restyling di Sherlock Holmes e delle sue avventure;a lui il compito di mantenere la materia all’interno della tradizione, rinnovandola con lo stile consumistico del mangiatore di pop corn, abituato a non mettere mai in dubbio la giustezza e l’invincibilità del suo eroe. Sherlok e Watson diventano come Batman e Robin: una coppia di eroi in marsina e doppio petto, talmente affiatati e così poco propensi alla compagnia femminile da far sorgere il sospetto di un inciucioche va oltre l’amicizia.

Una scommessa riuscita al primo colpo più per la sorpresa della confezione - Holmes impegnato in combattimenti alla “Matrix” è certamente cosa fuori dall'ordinario - che per la novità della proposta, in pratica ricalcata sulla miriade di film d'avventura e di supereroi dell'ultimo decennio. Un gran uso del digitale e l'impiego di attori normalmente abituatia cose ben più serie.

Ci si poteva accontentare se Hollywood non fosse prima di tutto una macchina pensata per far soldi e quindi poco propensa a non replicare un prodotto che funzioni. Anche quando le idee stanno a zero e l'unica cosa si cui contare è la presenza di un cast all star, almeno per quanto riguarda i personaggi principali. E Guy Ritchie, ovviamente, l’uomo giusto al posto giusto se si tratta di confondere l’inconsistenzadella sostanza con la ginnastica delle immagini.

Robert Downey quindi, seppur indurito nei tratti dagli anni e dalla dieta e sempre meno capace di fare a meno del suo sguardo spiritato, e Jude law, eternamente impettito a ribardire le stimmati della terra d'albione. Loro e sempre al centro della scena e tutt'intorno un gran bailame di rumori, esplosioni e cambiamenti di location a ricreare di volta in volta un nuovo scenario, dalla Francia alla Svizzera, dalla città alla natura più selvaggia, per ricominciare sempre da capo, perennemente alla ricerca di qualcosa che è sfuggito per un pelo. La caccia ad un avversario la cui organizzazione ricorda quella di Al Qaeida per il continuo ricorso ad un terrorismo senza volto ed organizzato su scala internazionale con intenti di sconvolgimento geopolitico (questa volta si rischia addirittura la guerra che di lì a poco sarebbe stata quella della prima guerra mondiale) diventa un film ad episodi, ognuno dei quali ricalcato su quello precedente, dove nulla succede se non quello esibito in sede di regia dal buon Ritchie. E' la sua continua ricerca di stordimento, quel non concedere neanche un minuto alla riflessione dello spettatore accompagnandolo per filo e per segno lungo la corsa agli ostacoli con decostruzioni che non ci fanno mai dimenticare l’intelligenza e la paziente fedeltà del suo assistente, ad essere il vero motivo d'attrazione. Virtù che una volta potevano anche stupire perchè messe in scena con le magie del digitale, ma che ora qualunque tecnico sarebbe in grado di riprodurre. Per l'avventura quella vera forse bisognerà aspettare ancora del tempo, forse la nascita di un nuovo Spielberg, chissà. Intanto il pubblico dimostra di gradire almeno leggendo i responsi del botteghino. Ad Hollywood hanno avuto ragione un'altra volta. Una nuova trilogia è molto probabile.


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