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SHERLOCK. L’ABOMINEVOLE SPOSA, al cinema mart. 12 e merc. 13 gennaio: recensione

Creato il 11 gennaio 2016 da Luigilocatelli

Sherlock: The Abominable BrideSherlock. L’abominevole sposa. Con Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Una Stubbs, Rupert Graves, Andrew Scott, Mark Gatiss. Scritto da Mark Gatiss e Steven Moffat. Diretto da Douglas Mackinnon. Con 20 minutio di extra sul set.
Solo il 12 e 13 gennaio 2016 in 200 sale italiane. Distribuito da Nexo Digital. Sul sito Nexo l’elenco delle sale.
10275523_1125226437496567_6896779743714578361_oPer due giorni al cinema un nuovo, speciale episodio della serie tv con Benedict Cumberbatch e Martin Freeman. Non più ambientata nella contemporaneità, ma nella Londra vittoriana di Conan Doyle. La storia? Poco più che un pretesto per un vertiginoso gioco di rifrazioni e rispecchiamenti narrativi. Un film di inusitata raffinatezza di scrittura. Maglio non perderselo. Voto 7 e mezzo
Sherlock: The Abominable Bride12402163_1125223977496813_5942249216402834167_oSolo per due giorni in sala, e cercate di non perdervelo: che siate cultori della serie tv targata Bbc con Benedict Cumberbatch di cui questo Sherlock, l’abominevole sposa è un nuovo e speciale episodio, o che di quella serie siate del tutto digiuni. Ne vale la pena per via di una sceneggiatura di incredibile raffinatezza e complessità, per la moltiplicazione vertiginosa dei piani narrativi, per lo scintillio di una scrittura nella più pura tradizione british dell’ironia aguzza e disincantata, da Wilde e Shaw in giù, con ovvie strizzate d’occhio a Conan Doyle. Al cui testo la serie, e questo nuovo film sono fedeli e infedeli, in una rilettura-revisione assolutamente libera e ipermoderna delle avventure del più classico e azzimato dei detective. Conferma clamorosa, se mai ce ne fosse ancora bisogno, di come la recente serialità tv abbia più a che fare con lo storytelling, e la scrittura, che con la messinscena e la regia. Qui i padroni veri della partita sono la coppia di sceneggiatori Mark Gatiss (anche interprete del fratello di Sherlock) e Steven Moffat. Con una novità rispetto alle puntate precedenti della serie che, come ben conoscono i cultori, era ambientata nella Gran Bretagna contemporanea. Perché stavolta, in un viaggio del tempo che è anche un ritorno alle origini, Sherlock Holmes e il suo inseparabile John Watson (benché i due battibecchino peggio di una coppia inacidita) agiscono nell’era vittoriana in cui Arthur Conan Doyle li inventò e li collocò. Nella Londra brumosa e fumosa e un filo steampunk, si sbattono per far luce sullo strano caso di Emelia Ricoletti che, pur essendosi suicidata (in abito da sposa!), torna a uccidere e uccidere ancora. E però il positivista Sherlock non crede ai fantasmi ma solo al mondo di qua e alle sua materiali cose e creature, e dunque via con l’indagine insieme al riluttante Watson. Ora, l’asse narrativo è poco più che un pretesto, e non il lato più interessante dell’operazione. La cui forza sta nel come i due sceneggiatori-prestigiatori mescolano le carte, i punti di vista, i piani temporali e narrativi, producendo un metaSherlock autoriflettente e labirintico in cui lo spettatore resta continuamente spiazzato, e intrappolato e smarrito. Quello che vediamo cos’è davvero? È semplicemente un ritorno alla sacralità del testo di Conan Doyle e al suo tempo ottocentesco o è un sogno-delirio-incubo, o un trip, indotto nello Sherlock contemporaneo da un abuso di sostanze alteranti (di cui, si sa, è abbondamntemente dipendente)? O, al contrario, le avventure dello Sherlock contemporaneo sono delle premonizioni, degli scenari futuri partoriti dalla mente, sempre alterata dalla ben nota soluzione 7 per cento, dello Sherlock vittoriano? Se questo film è una macchina del tempo, e lo è, qual è però la sua direzione? Per non parlare dei personaggi che più che agire in proprio si adeguano e si modellano su come li ha descritti e codificati Watson nei suoi romanzeschi racconti delle indagini sherlockiane pubblicati sullo Strand Magazine. La narrazione si trascina dentro frammenti e scorie dei passati episodi della serie ma anche di Conan Doyle, citando e autocitandosi compulsivamente, in un eterno ritorno al passato, e del passato (vedi il revenant Moriarty). In questo gioco di scatole cinesi o bambole russe che si aprono e svelano incessantemente nuovi-e-vecchi panorami mentali e narrativi, si aprono anche parecchie finestre su omoerotismi più o meno impliciti. Non solo le ormai scontate allusioni ai sottintesi e sottotesti gay del rapporto Sherlock-Watson, ma anche l’attrazione tra Sherlock e Moriarty (che si presenta al detective nientemeno che con la battuta di Mae West ‘Sherlock, hai una pistola in tasca o sei solo contento di vedermi?’), e donne che si travestono da uomini per avere un posto nel mondo degli uomini. Non se ho reso l’idea di cosa sia questo Sherlock, l’abominevole sposa. Certo non aspettatevi una messa in scena notarile di Conan Doyle, ecco.


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