Anchese figure della yakuza, e situazioni ricorrenti del genere ad essa dedicato,avevano già fatto la loro comparsa nei precedenti film di Miike (a partire dalboss perverso di EyecatchJunction, 1991, opera d’esordio delregista), Shinjuku Outlaw è il primolavoro del cineasta definibile a tutti gli effetti come un vero e proprio filmyakuza. Tratto da un romanzo di Tanaka Fumio, il lavoro è sceneggiato da IchirōFujita, che giocherà un ruolo importante nei successivi film di Miikeappartenenti al genere, come attesta la sua firma alle sceneggiature di The Third Yakuza (1995) e Shinjuku Triad Society (1995). Ottavaopera del regista, almeno secondo le sue filmografie ufficiali, Shinjuku Outlaw presenta diversi aspettiche lo legano alla tradizione, soprattutto per quel che riguarda la figura diYomi, il suo protagonista. Anche se, sul piano dell’intreccio, il rinvio piùevidente, ironia a parte, è forse quello a Yojinbō(La sfida del samurai), il celebrefilm diretto nel 1961 da Kurosawa Akira. Come il personaggio lì interpretato daMifune Toshirō, anche lo Yomi di ShinjukuOutlaw si ritrova conteso fra due bandi rivali, che entrambe cercano dischierarlo dalla loro parte, e per farlo non lesinano colpi vili e bassi (comequello di sequestrare le persone a lui care). Yomi non sceglierà né gli uni, négli altri, e nelle sequenze finali del film colpirà entrambi. A ricordare La sfida del samurai c’è anche ilrapporto fra Yomi e Tagami (il poliziotto corrotto al servizio degli Okumura),che riprende quello fra i personaggi di Mifune e Nakadai Tatsuya, in cui dueuomini, pur schierati dalle parti opposte della barricata, non possono faremeno di riconoscere l’un l’altro un valore che li eleva ben al di sopra deglialtri personaggi del film (motivo questo che lo stesso cinema yakuza farà piùvolte proprio). Yomiè, fra i “criminali” di Miike, uno di quelli che con più evidenza riprende letragiche figure cavalleresche della grande epopea del cinema di yakuza deglianni Sessanta e Settanta, in particolare dei film prodotti dalla Tōei einterpretati dallo stoico Takakura Ken. Sin dal prologo, Yomi mette arepentaglio la propria vita per vendicare il proprio boss, ricoverato inospedale, decidendo che sarà lui, da solo, a regolare i conti con il clanrivale. Dopo dieci lunghi anni di detenzione, l’uomo ritorna in libertà perscoprire – secondo un vero e proprio archetipo del genere – quanto, in quellasso di tempo, sia cambiato il mondo della yakuza. Dalla sua Hiroshima, l’uomoè costretto a trasferirsi nellaTokyo diShinjuku, per rintracciare l’amico Eto, lì fuggito insieme ad Ayumi, quella cheun tempo era la donna dello steso Yomi. Il film sembra così voler seguire lastrada della vendetta personale, ma subito Yomi dimostra la sua benevolenza,accettando le scuse dei due e cercando, ancora una volta a rischio dellapropria vita, di tirarli fuori dai guai in cui si sono cacciati. Questadisposizione al perdono, così come la capacità di comprendere le contraddizionie le deficienze proprie di ogni essere umano, la ritroveremo anche nel finale,quando Yomi perdonerà la ragazza filippina, divenuta sua amante, dopo averscoperto la complicità di questa col rivale Tagami. Pur tradito nell’amicizia enell’amore, Yomi si mantiene sino alla fine fedele ai propri principiumanitari. Ma se Yomi rimane uguale a se stesso, così non è stato per il mondoche lo circonda. Quando, poco prima di uscire dal carcere, riceve la visita diun suo vecchio compagno yakuza, questi gli dice che deve «dimenticareHiroshima», intendendo con «Hiroshima» gli ideali cavallereschi della yakuzadel passato (ideali puramente immaginari, così come la tradizione del genere hacelebrato, senza preoccuparsi troppo di aderire alla realtà). Nella scena incui Yomi deve strappareEto dallegrinfie dello yakuza Katayama, cui l’amico ha sottratto parte del denaroricavato dal traffico della prostituzione, ordina a questi di eseguire lo yubitsume (il taglio di una falange deldito mignolo) in gesto di scusa. La reazione di Katayama, che dà del pazzo aYomi e gli chiede ironicamente se è questo «l’onore di Hiroshima?», è più cheindicativa dello iato che separa la yakuza del passato da quella del presente,la cavalleresca tradizione di Hiroshima dalla brutale modernità di Shinjuku.Tutto ciò è ribadito anche nel momento in cui Yomi chiede a Katayama una spadaper eseguire lo yubitsume e questi,prima di fargliela consegnare, gli mostra con aria di sfida una pistola, come adire che non è più tempo di armi bianche. In una scena successiva del film, gliOkumura mostrano a Yomi, per costringerlo a collaborare con loro, il voltotumefatto di Ayumi, che hanno sequestrato e picchiato. Il lapidario commentodell’uomo è tutto un programma: «Così è questo il modo in cui lavorano gli yakuza diShinjuku?».Lo stesso Eto, incapace dicomprendere il senso di fratellanza che anima Yomi, gli urla contro che non habisogno di lui, che sarebbe meglio fosse morto, e che «in questi dieci annitutto è cambiato». Il fatto poi che gli anni trascorsi in carcere siano statipassati da Yomi in coma, a causa dei colpi subiti nella sparatoria iniziale, fadel protagonista un vero e proprio revenant(con evidenti rimandi allo Iena Plinsky di 1997– Fuga da New York, 1981, di John Carpenter), costretto a confrontarsi conun mondo nuovo dove, come egli stesso afferma: « Ovunque scappiamo troviamodelle acque sporche dietro i neon».Ciòche, almeno in parte, differenza Yomi dagli stoici eroi di Takakura Ken, è lasua scelta di non appartenere più al suo vecchio clan. Nella già citata scenadello yobitsume, che non a caso nonsarà eseguito, il protagonista dichiara apertamente di non preoccuparsi più delcodice della yakuza. Sequindi nel personaggio di Yomi già si percepiscono degli elementi di novità,pur in un generale legame di continuità con il passato, l’aspetto che piùintroduce in Shinjuku Outlaw losguardo che Miike getterà, nei suoi film a venire, sul sottobosco criminalegiapponese, è quello che riguarda la sua dimensione multietnica (che è ancheuna vera e propria metafora della stessa società nipponica). Lo scontro frabande (altro topos del genere) è qui, infatti, quello fra il clan yakuza vero eproprio degli Okumura e quello della banda di Taiwan, guidata da Fang. Senzasconto alcuno, il film distribuisce a entrambe le parti le malefatte che, per cosìdire, queste meritano (fatto che accentua l’integrità morale e la statura dieroe di Yomi che, non a caso, non si schiera né con gli uni, né con gli altri).Di là dalla banda di Taiwan e delle sue nefandezze, la dimensione multietnicadel mondo criminale di Shinjuku si estende sino all’inclusione di altre etnieasiatiche e no (filippini, coreani, iraniani, peruviani), coinvolte anchenell’esplicito ruolo di vittime del sistema malavitoso (come, ad esempio,accade per le prostitute filippine). Va anche notato come l’unico personaggioche si schieri apertamente dalla parte di Yomi, e mai lo tradisca, come invecefanno i giapponesi Eto e Ayumi e la ragazza filippina, che tuttavia sembrasinceramente pentirsene, è Tsuji, un giovane malvivente di origini peruviane.Quando Yomi chiede a Tsuji perché sia diventato uno yakuza, questi risponde: « C’è unaragione per diventare uno yakuza in questo paese?», quasi a indicare l’ovvietàdi un tragico percorso cui gli immigrati più deboli sono spessoineluttabilmente destinati. È la stessa ovvietà cui rimanda la ragazzafilippina,quando finisce col porsi dasola le domande che Yomi è sul punto di farle: «Perché sono in questo paese?Perché sono in questa città? Perché lavoro con la yakuza?», e poi ancora: «Nonvuoi tornare nel tuo paese? Come può una cristiana vendere il proprio corpo?». Lamultietnicità di Shinjuku Outlaw èanche specchio di sentimenti razzisti: sia dei giapponesi verso gli immigrati,sia dei secondi nei confronti dei primi. Rivolgendosi al poliziotto corrottoTagami, un boss yakuza gli dice: «Se hai tempo per estorceredel denaro alla nostra banda, non potresti trovarne anche per arrestare queifottuti stranieri». E più avanti Tagami farà sapere ad Okumura che se dovesserouccidere Fang, la polizia non interverrebbe. Lo stesso Yomi non è del tuttoesente da un certo razzismo di fondo: nella scena in cui, con l’aiuto di Tsuji,irrompe nel covo della banda di Taiwan, punta la pistola contro il volto di uncinese dicendogli, prima di sparargli, di tornarsene nel proprio paese. Pocodopo questi, gravemente ferito ma ancora in vita, punterà a sua volta lapistola contro Tsuji, e, scambiandolo per un nativo, gli griderà «Muorigiapponese». Concludiamo le nostre considerazioni sul film con alcune osservazioni sulpiano espressivo. Pur essendo ShinjukuOutlaw ancora un’opera del primissimo Miike, è già evidente il suo gustoper una messinscena flamboyant, perquelle attrazioni visive (a volte al limite del buon gusto, o meglio un po’oltre) che inscrivono i suoi film in una dimensione squisitamente postmoderna.Si veda, ad esempio, la scena della vendetta iniziale, costruita sul montaggioalternato fra Yomi e la sua vittima, da un parte, e l’avanzare di una palla dabowling verso i birilli, dall’altra; e ancora, nella stessa scena, l’assassiniovero e proprio del boss, che passa attraverso l’immagine del volto dellanipotina colpito dagli schizzi del sangue del nonno; nella sparatoria che sisvolge nel covo dei taiwanesi, la cui dinamica ricorda, in scala ridotta, lacelebre sparatoria iniziale di HardBoiled, 1992, di John Woo, il climax della scena, l’uccisione del bossFang, è mostrato attraverso l’inquadratura di un suo schizzo di sangue chefinisce col raggrumarsi nell’olio bollente di un wok. Ma il momento più appariscente è quello rappresentato dalla sequenza dellavendetta dei Fang che regolano i conti con gli Okumura. Sul piano strutturalela scena è un classico esempio di sequenza di montaggio (una successione didiverse brevi scene separate da altrettante brevi ellissi che mostrano unaserie di eventi correlati fra loro), come si è visto centinaia di volte nelcinema gangsteristico americano (perlomeno a partire dallo Scarface, 1932, di Howard Hawks). Ciò che la rende, tuttavia,diversa, è sia la sua apertura, quasi astratta, con un uomo che spara allespalle di un altro, per poi volgersi verso lo spettatore ed esibirsi in un veroe proprio passo di danza; e poi il suo stesso svolgimento, in cui si assiste,oltre all’intermittente ritorno del primo assassino con le sue movenze daballo, ad altre vere e proprie attrazioni, come quella del cinese che ricevel’applauso di tutti i suoi compagni dopo aver eseguito una serie di piroettekung fu che avrebbero fatto impallidire Bruce Lee, o quella dell’altro cinese che,prima di sparare il definitivo colpo in testa al suo rivale, trova il tempo dipisciargli lungamente addosso. Così è Miike. [Dario Tomasi]
Anchese figure della yakuza, e situazioni ricorrenti del genere ad essa dedicato,avevano già fatto la loro comparsa nei precedenti film di Miike (a partire dalboss perverso di EyecatchJunction, 1991, opera d’esordio delregista), Shinjuku Outlaw è il primolavoro del cineasta definibile a tutti gli effetti come un vero e proprio filmyakuza. Tratto da un romanzo di Tanaka Fumio, il lavoro è sceneggiato da IchirōFujita, che giocherà un ruolo importante nei successivi film di Miikeappartenenti al genere, come attesta la sua firma alle sceneggiature di The Third Yakuza (1995) e Shinjuku Triad Society (1995). Ottavaopera del regista, almeno secondo le sue filmografie ufficiali, Shinjuku Outlaw presenta diversi aspettiche lo legano alla tradizione, soprattutto per quel che riguarda la figura diYomi, il suo protagonista. Anche se, sul piano dell’intreccio, il rinvio piùevidente, ironia a parte, è forse quello a Yojinbō(La sfida del samurai), il celebrefilm diretto nel 1961 da Kurosawa Akira. Come il personaggio lì interpretato daMifune Toshirō, anche lo Yomi di ShinjukuOutlaw si ritrova conteso fra due bandi rivali, che entrambe cercano dischierarlo dalla loro parte, e per farlo non lesinano colpi vili e bassi (comequello di sequestrare le persone a lui care). Yomi non sceglierà né gli uni, négli altri, e nelle sequenze finali del film colpirà entrambi. A ricordare La sfida del samurai c’è anche ilrapporto fra Yomi e Tagami (il poliziotto corrotto al servizio degli Okumura),che riprende quello fra i personaggi di Mifune e Nakadai Tatsuya, in cui dueuomini, pur schierati dalle parti opposte della barricata, non possono faremeno di riconoscere l’un l’altro un valore che li eleva ben al di sopra deglialtri personaggi del film (motivo questo che lo stesso cinema yakuza farà piùvolte proprio). Yomiè, fra i “criminali” di Miike, uno di quelli che con più evidenza riprende letragiche figure cavalleresche della grande epopea del cinema di yakuza deglianni Sessanta e Settanta, in particolare dei film prodotti dalla Tōei einterpretati dallo stoico Takakura Ken. Sin dal prologo, Yomi mette arepentaglio la propria vita per vendicare il proprio boss, ricoverato inospedale, decidendo che sarà lui, da solo, a regolare i conti con il clanrivale. Dopo dieci lunghi anni di detenzione, l’uomo ritorna in libertà perscoprire – secondo un vero e proprio archetipo del genere – quanto, in quellasso di tempo, sia cambiato il mondo della yakuza. Dalla sua Hiroshima, l’uomoè costretto a trasferirsi nellaTokyo diShinjuku, per rintracciare l’amico Eto, lì fuggito insieme ad Ayumi, quella cheun tempo era la donna dello steso Yomi. Il film sembra così voler seguire lastrada della vendetta personale, ma subito Yomi dimostra la sua benevolenza,accettando le scuse dei due e cercando, ancora una volta a rischio dellapropria vita, di tirarli fuori dai guai in cui si sono cacciati. Questadisposizione al perdono, così come la capacità di comprendere le contraddizionie le deficienze proprie di ogni essere umano, la ritroveremo anche nel finale,quando Yomi perdonerà la ragazza filippina, divenuta sua amante, dopo averscoperto la complicità di questa col rivale Tagami. Pur tradito nell’amicizia enell’amore, Yomi si mantiene sino alla fine fedele ai propri principiumanitari. Ma se Yomi rimane uguale a se stesso, così non è stato per il mondoche lo circonda. Quando, poco prima di uscire dal carcere, riceve la visita diun suo vecchio compagno yakuza, questi gli dice che deve «dimenticareHiroshima», intendendo con «Hiroshima» gli ideali cavallereschi della yakuzadel passato (ideali puramente immaginari, così come la tradizione del genere hacelebrato, senza preoccuparsi troppo di aderire alla realtà). Nella scena incui Yomi deve strappareEto dallegrinfie dello yakuza Katayama, cui l’amico ha sottratto parte del denaroricavato dal traffico della prostituzione, ordina a questi di eseguire lo yubitsume (il taglio di una falange deldito mignolo) in gesto di scusa. La reazione di Katayama, che dà del pazzo aYomi e gli chiede ironicamente se è questo «l’onore di Hiroshima?», è più cheindicativa dello iato che separa la yakuza del passato da quella del presente,la cavalleresca tradizione di Hiroshima dalla brutale modernità di Shinjuku.Tutto ciò è ribadito anche nel momento in cui Yomi chiede a Katayama una spadaper eseguire lo yubitsume e questi,prima di fargliela consegnare, gli mostra con aria di sfida una pistola, come adire che non è più tempo di armi bianche. In una scena successiva del film, gliOkumura mostrano a Yomi, per costringerlo a collaborare con loro, il voltotumefatto di Ayumi, che hanno sequestrato e picchiato. Il lapidario commentodell’uomo è tutto un programma: «Così è questo il modo in cui lavorano gli yakuza diShinjuku?».Lo stesso Eto, incapace dicomprendere il senso di fratellanza che anima Yomi, gli urla contro che non habisogno di lui, che sarebbe meglio fosse morto, e che «in questi dieci annitutto è cambiato». Il fatto poi che gli anni trascorsi in carcere siano statipassati da Yomi in coma, a causa dei colpi subiti nella sparatoria iniziale, fadel protagonista un vero e proprio revenant(con evidenti rimandi allo Iena Plinsky di 1997– Fuga da New York, 1981, di John Carpenter), costretto a confrontarsi conun mondo nuovo dove, come egli stesso afferma: « Ovunque scappiamo troviamodelle acque sporche dietro i neon».Ciòche, almeno in parte, differenza Yomi dagli stoici eroi di Takakura Ken, è lasua scelta di non appartenere più al suo vecchio clan. Nella già citata scenadello yobitsume, che non a caso nonsarà eseguito, il protagonista dichiara apertamente di non preoccuparsi più delcodice della yakuza. Sequindi nel personaggio di Yomi già si percepiscono degli elementi di novità,pur in un generale legame di continuità con il passato, l’aspetto che piùintroduce in Shinjuku Outlaw losguardo che Miike getterà, nei suoi film a venire, sul sottobosco criminalegiapponese, è quello che riguarda la sua dimensione multietnica (che è ancheuna vera e propria metafora della stessa società nipponica). Lo scontro frabande (altro topos del genere) è qui, infatti, quello fra il clan yakuza vero eproprio degli Okumura e quello della banda di Taiwan, guidata da Fang. Senzasconto alcuno, il film distribuisce a entrambe le parti le malefatte che, per cosìdire, queste meritano (fatto che accentua l’integrità morale e la statura dieroe di Yomi che, non a caso, non si schiera né con gli uni, né con gli altri).Di là dalla banda di Taiwan e delle sue nefandezze, la dimensione multietnicadel mondo criminale di Shinjuku si estende sino all’inclusione di altre etnieasiatiche e no (filippini, coreani, iraniani, peruviani), coinvolte anchenell’esplicito ruolo di vittime del sistema malavitoso (come, ad esempio,accade per le prostitute filippine). Va anche notato come l’unico personaggioche si schieri apertamente dalla parte di Yomi, e mai lo tradisca, come invecefanno i giapponesi Eto e Ayumi e la ragazza filippina, che tuttavia sembrasinceramente pentirsene, è Tsuji, un giovane malvivente di origini peruviane.Quando Yomi chiede a Tsuji perché sia diventato uno yakuza, questi risponde: « C’è unaragione per diventare uno yakuza in questo paese?», quasi a indicare l’ovvietàdi un tragico percorso cui gli immigrati più deboli sono spessoineluttabilmente destinati. È la stessa ovvietà cui rimanda la ragazzafilippina,quando finisce col porsi dasola le domande che Yomi è sul punto di farle: «Perché sono in questo paese?Perché sono in questa città? Perché lavoro con la yakuza?», e poi ancora: «Nonvuoi tornare nel tuo paese? Come può una cristiana vendere il proprio corpo?». Lamultietnicità di Shinjuku Outlaw èanche specchio di sentimenti razzisti: sia dei giapponesi verso gli immigrati,sia dei secondi nei confronti dei primi. Rivolgendosi al poliziotto corrottoTagami, un boss yakuza gli dice: «Se hai tempo per estorceredel denaro alla nostra banda, non potresti trovarne anche per arrestare queifottuti stranieri». E più avanti Tagami farà sapere ad Okumura che se dovesserouccidere Fang, la polizia non interverrebbe. Lo stesso Yomi non è del tuttoesente da un certo razzismo di fondo: nella scena in cui, con l’aiuto di Tsuji,irrompe nel covo della banda di Taiwan, punta la pistola contro il volto di uncinese dicendogli, prima di sparargli, di tornarsene nel proprio paese. Pocodopo questi, gravemente ferito ma ancora in vita, punterà a sua volta lapistola contro Tsuji, e, scambiandolo per un nativo, gli griderà «Muorigiapponese». Concludiamo le nostre considerazioni sul film con alcune osservazioni sulpiano espressivo. Pur essendo ShinjukuOutlaw ancora un’opera del primissimo Miike, è già evidente il suo gustoper una messinscena flamboyant, perquelle attrazioni visive (a volte al limite del buon gusto, o meglio un po’oltre) che inscrivono i suoi film in una dimensione squisitamente postmoderna.Si veda, ad esempio, la scena della vendetta iniziale, costruita sul montaggioalternato fra Yomi e la sua vittima, da un parte, e l’avanzare di una palla dabowling verso i birilli, dall’altra; e ancora, nella stessa scena, l’assassiniovero e proprio del boss, che passa attraverso l’immagine del volto dellanipotina colpito dagli schizzi del sangue del nonno; nella sparatoria che sisvolge nel covo dei taiwanesi, la cui dinamica ricorda, in scala ridotta, lacelebre sparatoria iniziale di HardBoiled, 1992, di John Woo, il climax della scena, l’uccisione del bossFang, è mostrato attraverso l’inquadratura di un suo schizzo di sangue chefinisce col raggrumarsi nell’olio bollente di un wok. Ma il momento più appariscente è quello rappresentato dalla sequenza dellavendetta dei Fang che regolano i conti con gli Okumura. Sul piano strutturalela scena è un classico esempio di sequenza di montaggio (una successione didiverse brevi scene separate da altrettante brevi ellissi che mostrano unaserie di eventi correlati fra loro), come si è visto centinaia di volte nelcinema gangsteristico americano (perlomeno a partire dallo Scarface, 1932, di Howard Hawks). Ciò che la rende, tuttavia,diversa, è sia la sua apertura, quasi astratta, con un uomo che spara allespalle di un altro, per poi volgersi verso lo spettatore ed esibirsi in un veroe proprio passo di danza; e poi il suo stesso svolgimento, in cui si assiste,oltre all’intermittente ritorno del primo assassino con le sue movenze daballo, ad altre vere e proprie attrazioni, come quella del cinese che ricevel’applauso di tutti i suoi compagni dopo aver eseguito una serie di piroettekung fu che avrebbero fatto impallidire Bruce Lee, o quella dell’altro cinese che,prima di sparare il definitivo colpo in testa al suo rivale, trova il tempo dipisciargli lungamente addosso. Così è Miike. [Dario Tomasi]
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