C’è qualcosa che da sempre riesce magicamente a unire grandi e piccoli in un vortice talmente semplice che quasi diventa difficile spiegarlo a parole. Sono le favole, grandi allegorie che non hanno bisogno di un sottotesto interpretativo. Se poi quelle classiche, le più lette e ascoltate, vengono scomposte e sintetizzate in un brillante pastiche d’animazione, ecco che il successo viene garantito proprio dalla bizzarra mistura di incantesimi, avventure, romanticismo. Shrek ha fatto la sua comparsa sugli schermi nel 2001, diretto da Andrew Adamson e Vicky Jenson e basato sulla fiaba omonima di William Steig; nel 2002 ha vinto l’Oscar per il migliore film d’animazione. E non si è fermato lì, come ben sappiamo. In parallelo alla composizione della tetralogia cinematografica, ecco una nuova versione del tenero orco verde: Shrek The Musical debutta a Seattle nel 2008, per fare capolino in Italia all’inizio dello scorso ottobre, a Milano. Un’incontenibile – e infantile, lo ammetto – curiosità mi ha portata a rivivere il frizzante divertimento di cui già avevo goduto anni fa, quando ero ancora una bambina a tutti gli effetti. Costumi sgargianti, vivacità mai calante, scenografie che si mantengono fedeli al modello – talmente belli da sembrare veri i disegni della “casa” di Shrek, o del castello di Lord Farquaad a Duloc – e musica dal vivo sono gli ottimi punti di partenza per la realizzazione di un piacevole “mondo ideale” in cui tutto è concesso poiché tutto è stravolto da imprevisti che rendono sciocchi i pregiudizi di chiunque, anche di quegli stessi fruitori delle favole troppo abituati a stereotipi che a lungo andare possono anche annoiare.
Shrek (Nicolas Tenerani), rozzo e genuino, forse non è così spaventoso come voleva apparire nelle scene iniziali del cartone; da subito, anzi, si mostra in tutto il suo umano bisogno d’affetto al di sotto di un non marcato odio nei confronti del resto del mondo. L’introduzione è un montaggio combinato tra due addii che segneranno i destini dell’orco e della principessa Fiona (Alice Mistroni): in tenera età vengono cacciati da casa, costretti a cavarsela da sé, e questo sarà un tema che tornerà in un confronto-scontro tra i due in cui ognuno vorrà sostenere le proprie ragioni di vittima di una sorte avversa, accomunando la putrescente palude allo spettrale castello in cui sono cresciuti separatamente. La solitudine e il disagio esistenziale che questa porta con sé sono le note malinconiche che ogni tanto emergono tra i vari livelli di comicità, da quella più marionettistica delle variopinte creature favolose esiliate nella palude, a quella esuberante di un Ciuchino (Emiliano Geppetti) dalla parlantina sciolta degna del miglior deejay tutto mossette e sorrisini. Sono state riprese alla lettera alcune indimenticabili battute del cartone, dalla massima «Gli orchi sono come le cipolle» alla semplice giustificazione «Meglio fuori che dentro, dico io» dopo l’esternazione di sommovimenti gastrici. Simpatica – di certo molto più della super bionda-tonta Cameron Diaz, musa ispiratrice per il personaggio Dreamworks – la principessa, che si definisce “bipolare” per i suoi repentini cambi d’umore, la sua isterica impazienza e capricciosa insoddisfazione, il tutto accompagnato da un esasperato romanticismo.
L’infanzia turbata sembra davvero essere il motore dell’azione che porterà al riscatto nella felicità raggiunta; se Shrek lamenta l’astio da parte di chi lo teme e lo giudica senza conoscerlo, Fiona sfoglia ossessivamente libri rinchiusa nella sua torre, nel disperato tentativo di vincere la noia abbandonandosi a sogni d’amore. Ben centrata anche la caratterizzazione di Lord Farquaad (Piero Di Blasio), vanitoso e sfacciato nonostante un irrimediabile complesso d’inferiorità. Il primo pensiero, durante la trasposizione, sarà andato sicuramente al pubblico più vasto ed esigente, quello dei bambini. La ricerca della risata vince in modo schiacciante su quella che avrebbe potuto essere una non meno partecipata sospensione lirica; i personaggi vengono travolti da prorompenti episodi picareschi e non trovano spazio per una sosta meditativa. I toni soffusi che tanto candidamente armonizzavano il film, qui vengono un po’ trascurati o lasciati in secondo piano; niente struggente canzone di raccordo tra i due cuori infranti, quindi (la mia generazione assocerà sempre Hallelujah, nella versione di Rufus Wainwright, a questo piccolo capolavoro d’animazione). Come gran finale non poteva mancare un prestito direttamente dalla colonna sonora del lungometraggio, la canzone I’m a Believer, scatenata danza che non può augurare niente di meglio di una vita felice e contenta.