Si giocava meglio quando si stava peggio

Creato il 02 novembre 2010 da Tigella

Dalla lettura del lungo, seppure incompleto, elenco di giochi a “costo zero” parrebbe che nella nostra infanzia post-bellica il giocattolo, inteso come oggetto acquistato in un apposito negozio, non esistesse.

Effettivamente i nostri giocattoli erano quasi tutti ricavati da cose trovate in “natura” (sassi, rami, pezzi di legno, frammenti di mattone…), da oggetti in disuso (ombrelli, camere d’aria, elastici…), da parti di macchinari più complessi (ruote di bicicletta, cuscinetti a sfera)… e via con la fantasia!
Via anche con l’incoscienza! I nostri rudimentali carretti (quattro tavole montate su cuscinetti a sfera) venivano lanciati in discesa – le strade erano senza automobili – ad una velocità che ci pareva pazzesca, governati con uno sterzo a corda e frenati con una precaria leva. Probabilmente esiste un Santo Patrono dei “carrettisti”, visto che nessuno di noi si è mai seriamente ferito nelle “gare”, a parte qualche sbucciatura superficiale.

I pochi giocattoli “veri” apparivano solo a Natale ed avevano tutti comuni caratteristiche: dovevano durare a lungo, essere solidi e facilmente riparabili, riutilizzabili da più bambini nella stessa famiglia o cerchia ambientale. Erano generalmente di legno (cavallucci, tricicli, monopattini, birilli) ed esisteva un loro “mercato dell’usato” a cura del falegname del quartiere, che li ritirava, li rimetteva a nuovo e li rivendeva a prezzo d’occasione.

Un classico dell’epoca era la trottola di legno (in dialetto genovese  “ziardoa”, pron. siardua): una sfera di legno di 12-15 cm di diametro, metà della quale veniva tornita fino a diventare un tronco di cono scanalato, sul cui vertice veniva inserito un puntale di ferro. Lungo la scanalatura si avvolgeva lo spago che serviva a lanciarla lontano e ad imprimerle un movimento rotatorio che durasse il più a lungo possibile. Durante i lanci la trottola doveva essere sorvegliata con grande attenzione, perché il puntale di ferro era un “trofeo” da conquistare sottraendo con destrezza la trottola e rompendola esclamando la rituale formula “rompi legno, piglia ferro!” (sciappa legnu, piggia feru!). I più abili (e prepotenti) ostentavano le punte conquistate come un capo Sioux i propri scalpi. La perdita del puntale, grave vulnus per l’orgoglio, comportava anche la necessità della paziente ricostruzione dei fondi necessari per comprare un’altra trottola.

Di legno erano anche i primi giochi di costruzione (il Lego era ancora lontano…), sostituiti o integrati talvolta dalle mollette da bucato della mamma.

Un giocattolo molto diffuso era il “traforo”: con i suoi attrezzi (sega ad arco, lamette, trapano a vite, carta vetrata, ecc.) sapevamo realizzare complesse figure nel foglio di legno compensato, fino a costruire con intagli ed incastri strutture molto articolate. La nostra abilità manuale decretò anche il successo del Meccano, un gioco di costruzione basato sul collegamento di traversine di ferro forate mediante piccoli dadi e bulloni.

Quasi tutti i giocattoli, a parte le bambole ed i loro derivati e quelli più strettamente “di conquista”,  erano unisex; il giocattolo per eccellenza dei “maschietti”, nella nostra piazza che pareva fatta apposta per giocare a calcio, era il pallone. Ne esistevano di diversi tipi: da quello di pezza a quelli di gomma di varia misura e consistenza, fino alla comparsa dei primi di materiale plastico, più leggeri e regolari. Il “re” dei palloni (per quei pochi che potevano permetterselo) era quello di cuoio (lo chiamavamo “scrun” e non ho mai saputo perché…) del n° 5, il formato “regolamentare”, con la camera d’aria e la cucitura sul lato. Durante le vacanze estive scendevamo in piazza al mattino presto e tiravamo calci fino alla sera, interrompendoci solo brevemente per il pranzo.
Il nemico più temibile dal quale guardarsi non era nella squadra avversaria: era il vigile che, chiamato da qualcuno infastidito dai nostri schiamazzi, a volte arrivava per sottrarci il pallone (… e se era lo “scrun” sai che dolori!). Per proteggerci dal nemico contavamo su una rete di avvistamento, sulla nostra velocità e sul fatto che la piazza presentava ben cinque vie di fuga: per un solo vigile, magari anziano e appesantito dalla divisa, era praticamente impossibile fermarci. Le poche volte che ciò  succedeva (sempre a seguito di un attacco “concentrico”), dopo lo scontato cazziatone dei genitori del proprietario, scattava la solidarietà di tutti per saldare l’eventuale multa e procurare un nuovo pallone, se non si riusciva a ”riscattare” quello sequestrato.

C’erano poi le biglie, dapprima di terracotta (a volte non perfettamente sferiche) e poi di vetro, del tipo ancora in commercio oggi. Le biglie servivano per le corse “ciclistiche” e per vari giochi “di conquista”, il cui scopo era quello di sottrarne il più possibile agli avversari (il cillo, il triangolo, ecc.). I virtuosi di queste specialità  si riconoscevano dal sacchetto rigonfio, che ostentavano con orgoglio.

Anche le figurine delle prime collezioni servivano per giocare ed essere conquistate (a testa o croce, a “coprire”, al muro, ecc.).

Già, le collezioni…

La prima che apparve, “quella degli animali” con 600 figurine quadrate l’ultima delle quali (il koala) era sulla copertina dell’album, ebbe un successo strepitoso che (Panini docet) dura tuttora.

Le figurine (noi le chiamavamo “cartine”), oltre ad essere oggetto “di conquista”, avevano stimolato un interesse del tutto nuovo: la ricerca della “mancante”. Portavamo sempre con noi l’elenco aggiornato delle cartine mancanti ed il pacco delle “doppie”, da scambiare con la libera trattativa o da mettere in gioco con l’azzardo. Si era costituito un vero e proprio “mercato” delle cartine, con regole che ne stabilivano il valore in base alla rarità: non eravamo ancora arrivati al mitico “Pizzaballa” di qualche anno dopo, ma la strada era ormai aperta.
A quei tempi le figurine non erano autoadesive ma dovevano essere incollate all’album. Prima della “coccoina” (appena apparsa sul mercato), si usava una colla (la “pastetta”) realizzata artigianalmente in casa mescolando farina, acqua e bianco d’uovo: completata la collezione, gli album avevano lo spessore di un tomo enciclopedico… La coccoina, con quel suo caratteristico odore, ci aveva conquistato subito: la chimica ci faceva scoprire un luminoso mondo nuovo, più “comodo” e pulito, del quale la plastica sarebbe diventata indiscussa regina. Noi ancora non lo potevamo immaginare… ma di questo parleremo in un’altra occasione.

Le foto sono di Hidden vice e Machie Bruce.


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