Lunedì l’agenzia internazionale Standard & Poor’s, ha comunicato l’abbassamento del rating della Russia a livello spazzatura ─ si tratta del primo dei BRICS a perdere lo status di “investment grade” e a finire nel baratro del “BB+”, gradino oltre il quale gli investimenti nel paese vengono considerati speculazione.
D’accordo, la soggettività delle “Big three” (S&P, Moody’s e Ficth, le tre grandi agenzie di rating, spesso sotto accusa perché non proprio arbitri imparziali) può pure essere messa in discussione: è chiaro che le posizioni, e le sanzioni, occidentali pesino sul giudizio. Ma oggettivamente, i dati dell’economia russa non sono confortanti; il valore del rublo viaggia ai minimi, il calo dei prezzi del petrolio ha dato un duro colpo a Mosca, che sul greggio (e su altre materie prime) ha vincolato il proprio sostentamento.
Negli ultimi giorni, come se non bastasse, UE e Stati Uniti hanno minacciato un irrigidimento delle sanzioni a causa del ritorno della guerra in Ucraina. E poco conta se la nuova Atene di Tsipras prenda posizioni ambigue sull’argomento ─ il neo premier si è lamentato con l’Europa di non essere stato avvisato sulla possibilità di ulteriori sanzioni, uscita forse dettata anche dal fatto che il primo incontro ufficiale, ce l’ha avuto proprio con l’ambasciatore russo.
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Sabato, la strage di Mariupol ─ città industriale di 500 mila abitanti, affacciata sul Mare di Azov, e ultimo baluardo ucraino nella regione di Donestk, non ancora in mano ai separatisti filorussi. Uno dei quartieri orientale è stato colpito da una pioggia di razzi Grad che ha provocato la morte di 30 persone (compreso un bambino di 5 anni e altri sette minorenni) e il ferimento di un altro centinaio ─ le foto che sono circolate mostravano cadaveri abbandonati nelle strade, coperti “alla meglio”, con la gente costretta a passargli vicino come se niente fosse, tornando con le buste della spesa.
L’Ucraina accusa i filorussi e, sottintende responsabilità di Mosca. Inizialmente i separatisti avevano negato ogni responsabilità sull’accaduto, ma poi si sono scoperti (ammettendone implicitamente la paternità) quando il presidente dell’autoproclamata repubblica di Donetsk, Aleksandr Zakharcenko, ha dichiarato l’inizio dell’offensiva su Mariupol. Una città nevralgica, collocata lungo l’arteria strategica che collega le regioni orientali (in mano ai ribelli) con la Crimea, ponte di collegamento con gli “aiuti” russi (e viceversa).
Qualche giorno fa, nonostante la tregua accettata dal governo ucraino il 5 settembre scorso ─ proprio davanti ad altri scontri sanguinosi a Mariupol ─, l’esercito regolare aveva dovuto abbandonare l’inutile assedio all’aeroporto di Donetsk (cominciato quest’estate) pressato dall’azione dei separatisti. Giovedì 22 gennaio, un scarica di colpi di mortaio ha colpito una fermata del tram nel quartiere Leninski di Donetsk uccidendo 13 persone: i separatisti accusano gli ucraini, che avrebbero bombardato il block, come più volte successo, alla cieca, perché centro di comando dei filorussi.
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Intanto la Rada, il parlamento ucraino, ha dichiarato la Russia “stato aggressore” e le autoproclamate repubbliche separatiste di Donetsk e Lugnask “organizzazioni terroristiche”, chiedendo ai partner dell’Ucraina di non lasciare impuniti i colpevoli, dunque di essere più severi con la Russia. Ma la strategia adottata da Kiev fa acqua da tutte le parti.
Il presidente Petro Poroshenko è in cerca di una legittimazione internazionale, e in fondo in fondo di un appoggio militare. È volato a Davos la scorsa settimana per incontrare l’élite mondiale, poi è andato a Riad alle esequie di re Abdullah, altro luogo di incontri importanti ─ per capirci sull’importanza diplomatica dei funerali del sovrano saudita, basta sapere che Obama si era portato dietro il segretario di Stato Kerry, il capo della Cia e il comandante in capo di CENTCOM. Ma niente: passi per la legittimazione, a parole, ma a fatti, cioè l’appoggio militare, per il momento Poroshenko non potrà di certo contarci.
Anzi, visti i risultati disastrosi della guerra lanciata verso le zone orientali, alcuni analisti ritengono che la sua credibilità tout court sia a rischio, e qualcuno inizia a pensare che non sarà lui a portare l’Ucraina fuori dalla crisi.
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In tutto la Russia continua a bombardare anche diplomaticamente questo flebile equilibrio ucraino. Putin, parlando a un gruppo di studenti due giorni fa, ha detto: «Non c’è più un esercito ucraino, in realtà c’è una legione straniera, in questo caso agli ordini della Nato, e ha obiettivi diversi dall’interesse nazionale dell’Ucraina». Poi, ieri, ha definito l’Occidente “nazisti” e l’Ucraina Auschwitz: notare l’eleganza, visto che proprio ieri era la giornata della memoria per le vittime dell’olocausto nazista.
Sparate a parte, è vero che l’avventurismo militare di Poroshenko, rischia addirittura di favorire Putin ─ forse una delle poche buone notizie che coinvolgono la Russia in questo momento. Kiev non potrà mai risolvere i problemi dell’Est con la forza, visto il legame tra i separatisti e Mosca (che, se fosse necessario, potrebbe pure aumentare l’appoggio). Il rischio di questa guerra lanciata senza troppo programmazione, è che le vittime civili aumentino sempre di più, le truppe si imbastardiscano, e nell’eventuale perdita del discernimento, Mosca guadagni qualche punto di legittimità.
Le forze ucraine sono mal preparate, mal comandate e mal rifornite. L’assedio, fallito, all’aeroporto di Donetsk è un paradigma del conflitto. I Cyborg (questo il nome dato a quelle truppe) hanno combattuto per mesi coraggiosamente, ma si sapeva che la sconfitta era solo questione di tempo, tra errori tattici dei comandanti e scarsi rifornimenti. Poroshenko aveva lanciato l’offensiva allo scalo come se fosse una battaglia in un punto esistenziale per questa guerra, quando invece si tratta di poco più di un mucchio di macerie. La retorica del presidente ─ “terremo l’aeroporto a ogni costo” ─ presagiva uno sforzo totale, ma così non è andata. E i morti sul terreno, alla fine, sono stati tanti.
Non è un caso che, come evidenziato da un reportage del Foglio, tra i soldati ucraini del Donbass, serpeggi un malumore pericoloso, che mette l’odio contro Putin al pari del malcontento verso il governo di Kiev. Buono per la Russia, male per tutto il resto.
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