Ed è motivo di grande soddisfazione personale la recensione che segue, scritta dalla professoressa Daniela Iodice, che il prossimo mercoledì illustrerà ad una platea appositamente convenuta nel salotto letterario Il Leggio del Mare, i motivi per cui tutte le “Femmine che mai vorreste come amiche“, protagoniste del libro omonimo, meritano di essere adottate come amiche care, da tenere abbracciate strette, dando a tutte loro quell’amore che invano hanno cercato per tutta la loro vita.
Femmine che mai vorreste come amiche - di Daniela Iodice
L’ospite di questa sera è la scrittrice Manuela Minelli , già nota al nostro pubblico per aver vinto nel 2010 il premio Leggio Del Mare con il racconto “ Ricordi a labbra salate”.
In realtà la definizione di scrittrice è riduttiva per la varietà e copiosità delle attività svolte e per gli interessi che ne arricchiscono il profilo umano prima ancora che di donna.
In qualità di giornalista ha pubblicato oltre 900 articoli fra interviste e inchieste, collaborando con quotidiani quali Il Messaggero, La Repubblica, Il Tempo; ha curato rubriche femminili per vari settimanali e rotocalchi, e attualmente collabora a riviste culturali e letterarie. Ha inoltre ideato e diretto periodici di musica e spettacolo. Ella stessa ha scritto ben 12 commedie musicali.
Il suo primo romanzo, “C’è odore di cuore”, viene pubblicato nel 2007. a cui seguiranno nel 2012 il romanzo “Epistolario erotico fra due internauti sconosciuti” e l’anno seguente Mestieri delle Gatte-Gattosìe e Miciastrocche”, i cui diritti d’autore sono devoluti all’Associazione Diversamente Gatto, che si occupa della cura di gatti feriti e abbandonati in Italia e in Europa. Il suo amore per gli animali è testimoniato dall’attività svolta nella LIPU. Vincitrice di vari premi letterari, è nostra gradita ospite per presentare il suo ultimo lavoro, edito ne 2014, la raccolta di racconti “Femmine che mai vorreste come amiche”.
Il titolo della raccolta a me ha fatto sorridere e l’ho sentito particolarmente intrigante, perché suggerisce l’idea di un universo femminile, FEMMINE, il cui tratto caratteristico è una sessualità forte, sanguigna, che guida e domina le scelte determinanti della vita, di quelle che fissano per sempre, come in un dramma pirandelliano, una maschera sul volto di un essere umano. E pirandelliana è la lucidità, spesso folle, che determina il precipitare dell’azione, e l’andamento narrativo rapido breve, che afferra il lettore e lo cattura fino allo scioglimento conclusivo, caratterizzato da finali inaspettati e fulminei, dai risvolti non di rado grotteschi. Non le vorremmo come amiche? Direi meglio che non le vorremmo come nemiche! Soprattutto alcune, vista la fredda determinazione, con cui celebrano la loro giustizia. Perché è di processi celebrati mentalmente che si tratta e di verdetti a lungo dibattuti ed eseguiti con la convinzione di avere il diritto e quasi il dovere di metterli in atto.
Così nel primo racconto in cui la protagonista, detta Tannina, nel suo legame viscerale con la terra, tannica appunto, che le ha dato la vita tra mosto e vinacce, riconosce solo a sé stessa il diritto di distruggere ciò che lei stessa ha creato. L’autrice non indulge nella descrizione dei protagonisti, né in questo, né nella maggior parte dei racconti: le loro sembianze fisiche e la nota distintiva della loro personalità si rivela durante la narrazione, in movimento, per dirla con Verga, in modo oggettivo e quasi impersonale, spesso ricorrendo a paragoni con l’ambiente naturale. Semmai la narrazione indulge proprio nella descrizione dell’ambiente naturale e stordisce il lettore con i colori e i profumi intensi e avvolgenti della terra, che lo prendono e distraggono dallo scioglimento finale delle vicende narrate, scioglimento finale che, anche per questo, colpisce in modo improvviso inaspettato violento, mentre si percepisce con chiarezza che la Legge Naturale precede ed è superiore a quella degli uomini e dello Stato.
Il vero protagonista del secondo racconto è il vento, Eolo e i suoi figli, allegoria del disordine e del caos, che si nasconde nell’animo di ciascuno di noi, in un cantuccio oscuro e profondo che tentiamo disperatamente, ma inutilmente, di tenere serrato, e spesso esplode in atti sanguinosi e inconsulti, trascinandoci in una “selva oscura” alla ricerca di chissà quale verità. E sono i colori e i profumi della natura che dipanano la narrazione, in realtà priva di un andamento cronologico; è il profumo intenso dei lillà e quello più delicato delle rose che ci restituisce alla dimensione temporale del trascorrere delle stagioni. La dimensione temporale del compleanno di una ragazza di 19 anni, già vecchia, che si interroga sul senso della vita con la testa incoronata di un tralcio di rosaspini.
Il motivo dominante del libro è l’amore: “chi di noi non cerca amore” si chiede l’autrice. Amore in tutte le sue forme: per la terra, per un uomo, per un figlio, un amore spesso violento e distruttivo, lacerante e appassionato sempre. È già stato detto che nella nostra autrice ricorre spesso il binomio amore e thanatos: così in “Sono una suora, non sono una santa”; in “Così diceva Marcuse”, o in “Jawad che dà a piene mani”. E spesso l’amore si colora di sangue e di violenza, come in “Alla cacciatora”, in cui la protagonista, delusa nelle sue giuste aspettative di amore, tenerezza e rispetto, fa giustizia del tradimento morale e delle violenze subite, destinando il marito, che si comporta in modo bestiale, ad essere imbandito a tavola come un maiale o un bue, vaga reminiscenza del mito di Atreo e Tieste. Spesso l’eros è congiunto a thanatos anche tra gli animali, come in “Difendere Emilia”; o tra le piante, come in “Yupanquita”. Ma più spesso tra gli esseri umani, dove si tinge di una lussuria dai risvolti kafkiani, come in “Lucertola” e in “Terry Tarantola”.
Nella raccolta l’autrice non manca di toccare temi oggi tristemente noti, come la solitudine degli anziani in “Le cose spostate”, l’anoressia in “Gala”, o il tema dell’incesto in “La bambina di pietra”, in cui drammaticamente è denunciata l’incuria e la cecità colpevole delle madri.
Mi piace terminare questa presentazione con un racconto che racchiude più di uno dei motivi da cui trae ispirazione l’autrice, in cui la drammaticità dei fatti narrati è stemperata dall’uso ironico e grottesco della lingua parlata dialettale: “Rugantino e le alghe”.