di Maria Serra
In questo contesto si inserisce anche l’atteggiamento di Israele, che già alla fine degli anni Settanta, e dopo gli accordi di Camp David, non nascose l’intenzione di portare l’acqua dal Sinai al deserto del Negev. Il progetto non fu mai realmente attuato poiché il Premier israeliano Begin rifiutò qualsiasi concessione su Gerusalemme, ma l’obiettivo non è mai stato abbandonato: oltre alle numerose trattative diplomatiche con Mubarak, Tel Aviv ha tentato di accrescere la propria influenza sugli altri Paesi del Nilo affinché approvassero criteri di spartizione delle acque che comprendessero anche Israele e, nel far ciò, ha finanziato il governo etiope nella costruzione di progetti di sfruttamento del Nilo Azzurro o, ancora, ha sostenuto le forze secessioniste del Sud Sudan a danno di Khartoum. Sudan che, secondo alcuni stralci di Wikileaks del 2010 – smentiti dal Cairo – avrebbe dovuto costituire una base da cui far partire le forze aeree egiziane per distruggere la diga. Secondo tali fonti (che si baserebbero su informazioni provenienti dall’agenzia privata d’intelligence Stratfor), se gli sforzi diplomatici per ridisegnare o sospendere il progetto fossero falliti, e sempre se la diga una volta completata interrompa in modo grave il decorso del fiume, il passaggio successivo sarebbe supportare un conflitto grazie al sostegno di Khartoum e, come si diceva precedentemente, dei militanti anti-etiopici.
E in effetti, l’ultimo fattore di preoccupazione per il Cairo è rappresentato dall’unità territoriale del Sudan e dalla nascita del Sud Sudan nel luglio del 2011: poiché oltre il 20% delle acque del fiume arrivano in territorio egiziano da questa regione, è naturale che la strategia politica dell’Egitto sia stata indirizzata a favorire l’unità del più grande Stato africano. La decisione di Juba di aderire in marzo alla Nile Basin Initiative – rifiutando così l’accordo del 1959 in quanto stipulato da Khartoum come giustificato dal Ministro sudsudanese per le Risorse idriche e l’Irrigazione Paul Mayom – non solo ha vanificato i progetti del Cairo nella regione meridionale con lo scopo di mantenere il Sud Sudan nella propria orbita (significativi in tal senso furono la costruzione di un laboratorio a Juba per l’analisi della qualità idrica, un porto a Wau per il monitoraggio dei livelli dell’acqua, la creazione di pozzi che distribuissero acqua pulita nelle province del sud), ma ha anche lasciato aperta la questione relativa al Canale di Jonglei, fortemente voluto dall’Egitto, ma la cui costruzione è stata interrotta nel 1983 a seguito dello scoppio della guerra civile per ridurre le perdite d’acqua dovute all’evaporazione nella regione paludosa del Sudd. L’indipendenza del Sud Sudan per l’Egitto non si è posta solo in termini economici e di sviluppo territoriale, ma anche politici a causa del fatto che l’Egitto si è fermamente opposto all’Autorità Intergovernativa sullo Sviluppo (IGAD), che riunisce i Paesi dell’Africa Orientale e che ha sostenuto Juba nel proprio processo di autodeterminazione.
Ecco dunque che nonostante pochi giorni prima dell’avvio dei lavori il Cairo e Addis Abeba si fossero accordati sulla “necessità di proseguire nelle attività di coordinamento per la questione del Nilo Azzurro, impegnandosi a non danneggiarsi vicendevolmente” e nonostante il Primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, al summit dell’Unione Africana degli scorsi 26 e 27 maggio avesse rassicurato Mursi (che peraltro aveva scelto la capitale etiope come meta delle sue prime uscite ufficiali) che non vi sarebbe alcuna intenzione di violare i diritti dei due maggiori sfruttatori delle risorse idriche, le polemiche non sono tardate ad arrivare e, anzi, hanno spinto il Presidente egiziano addirittura ad asserire che il suo Paese non permetterà che la parte del Nilo sul suo territorio venga minacciata “neanche di una goccia” e che “occorre adottare delle misure che garantiscano la protezione della sicurezza idrica dell’Egitto”, non escludendo peraltro possibili opzioni armate. Una retorica, questa, che pare tuttavia essere strumentale a distrarre l’opinione pubblica dai correnti problemi politici ed economici. A ben vedere, infatti, per quanto sia incontrovertibile il fatto che il progetto etiope provocherà un calo del bacino davanti alla diga di Assuan di 44 miliardi di metri cubi entro quattro anni (il 37% in meno dell’attuale) con ripercussioni innanzitutto sul piano del soddisfacimento della crescente domanda di cibo, i problemi non sono solo a monte della diga ma anche a valle in virtù della persistenza di sistemi di irrigazione tanto antiquati quanto inefficienti che mettono a rischio il sistema di cultura cerealicola da cui l’Egitto largamente dipende. Se la politica economica etiope – sempre più basata sulla diversificazione energetica e sulla volontà di soppiantare la produzione del caffè come principale risorsa di produttività – sembra più lungimirante, l’Egitto rischia di restare ostaggio dell’idea di un fiume come solo fonte di profitto fine a se stesso e non anche di sviluppo armonico nazionale e, dunque, anche di vita.
* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)
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