Si scrive per tutti

Da Marcofre

C’è questa frenesia e desiderio di trovare a ogni costo lettori: più ce ne sono meglio è. Perché giustamente si è a caccia di consenso e successo, non è certo una colpa, ci mancherebbe altro.
Ma forse non è il caso di preoccuparsi più di tanto.

Adesso provo a spiegarmi.
Dostoevskij scriveva per chi voleva leggerlo, questo è ovvio: quindi per i lettori, tutti, senza distinzioni; purché avessero i soldi per acquistare le sue opere. Dettaglio, quello dei soldi, non secondario perché come ogni bravo autore, il nostro amico russo era in bolletta.

Quelli che comprendevano davvero il suo percorso erano però pochi. Confeziona per esempio “Delitto e Castigo”, ma la maggior parte dei lettori avrà pensato (e lo pensa anche adesso):

“Non male. Però l’assassino si scopre subito chi è!”.

Non ci siamo.

Un autore che ha le idee chiare, anche ora nell’era del libro elettronico e del self-publishing, è consapevole di scrivere sempre per una minoranza di persone. Prende i soldi di tutti (pochi, di solito, facciamo finta che siano tanti per una volta), ma quello che lo gratifica sul serio sono quella manciata di opinioni che comprendono cosa c’è dietro quella storia scritta in tre anni di duro impegno.

Perché costoro sanno che le cose non sono come le vediamo, ma è necessario scendere in profondità.

Se si accetta questa feroce idea (si scrive per pochi, appunto), forse si riesce a vivere con meno ansia il fatto che il libro venda poco. Certo, sarebbe bello se, tuttavia la realtà è quasi sempre diversa da aspirazioni o sogni.

Questo mette di cattivo umore un editore, e me ne rendo conto. Anche nell’era digitale i costi ci sono eccome, e non è mai bello vedere che una creatura sulla quale per mesi si è rovesciato lavoro ed energie, resta in un angolo. Mentre il centro è occupato da altra roba.

Però un editore conosce bene il mondo che frequenta, meglio di un autore e ha già messo in conto questo genere di cose.

Un’opera è molto più che parole, nome dell’autore e copertina: dovrebbe racchiudere valore. Siccome le parole le usiamo a getto continuo (e ne abusiamo), spesso non sappiamo leggere con sufficiente nitore e profondità per cogliere la bellezza che racchiudono. Restiamo in superficie, galleggiamo sui capolavori come relitti di un naufragio.

Esatto, parlo di educazione alla lettura, di imparare a leggere sul serio. Immagino che una buona scuola di scrittura sia quella che insegna non a scrivere (sono affari di chi vuole provarci), bensì a leggere.
Dopo, molto dopo, si insegna cosa NON fare.

Mi rendo conto che Dostoevskij può anche non piacere, non pretendo che tutti lo debbano amare senza riserve. Per esempio, si potrebbe affermare che scrive troppo contorto, quando potrebbe essere ugualmente efficace con meno righe. Ma una tale critica giungerebbe da chi ha imparato a leggere.

Un esordiente dovrebbe badare non alla quantità, ma ai lettori giusti che per forza di cosa sono pochi.

Spesso le reti sociali mettono a disposizione strumenti efficaci per arrivare a tante persone, ma sono utilizzati malissimo. Chi frequenta Facebook o Twitter sa di cosa parlo: di una ossessiva (e ossessionate per chi la subisce) ricerca del numero, per far colpo, e quindi non si va tanto per il sottile. Si tempestano gli altri di richieste persuasi che la massa renda visibili e seducenti. Quando dovrebbe essere la forza della prosa, della propria voce, e la storia, a convincere.

Spesso questo genere di operazione riesce, e sono felice per chi l’ha promossa. Però non mi riguarda più. Sarà che sono vecchio, del secolo scorso.

Ricordo quando i primi blog cominciarono a imporsi, e si diceva: cosa è importante? Avere tanti lettori, oppure pochi ma intelligenti, importanti?
Ecco: un autore dovrebbe riflettere su questo, e agire di conseguenza. Decidi tu il tuo pubblico, e vai.


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