Si tratta solo di ripetere?

Da Marcofre

Di che cosa si parla, quando si scrive? Di vita? Si tratta di una definizione un po’ generica, persino troppo, ma ci può stare.
Forse si può provare a scendere nel particolare, abbandonando quindi il generale. Parliamoci chiaro però: questa vita poi, che roba è? Se si osserva quella di certi autori (Carver, o Flannery O’Connor), che cosa abbiamo?

Nel primo caso bottiglie, lavori mediocri, lavanderie a gettoni, bottiglie, tribunali, bottiglie, figli, bottiglie. Poi finalmente l’addio all’alcool.
Nel secondo il sud degli Stati Uniti, poi il Sud degli Stati Uniti, una capatina qui e là per studiare, o per tenere una conferenza, viaggi in Europa (Lourdes e Roma). Sud degli Stati Uniti.
C’è di meglio.

Conosco un mucchio di gente che davvero ha combinato di più. Però non importa. Diciamo che d’un tratto (più o meno) l’autore ha una specie di rivelazione; no, non ci siamo come definizione. Forse sarebbe più indicato scrivere: esperienza. Costui o costei fa un’esperienza, o due, ma nulla di eccezionale. Non bisogna immaginarsi chissà che cosa. Magari la medesima esperienza vissuta da un altro, condurrà a un esito differente. Nessuno più dire che se capita questo allora… Troppe le variabili, sul serio.

Qualunque sia la molla, o il motore, si può star certi che alla fine se esiste del talento, è da quello che è successo che si trarrà la linfa per le proprie storie. Qualcuno ha detto (non qualcuno: Scott Fitzgerald), che alla fine si tratta di imparare bene il mestiere, e ripetere. Dopo un po’ la gente si ferma ad ascoltare.
Quindi si tratta di sfiancare il lettore?

No.

Esiste il rischio di scambiare chi racconta storie con uno spot pubblicitario, che martella il pubblico sino a sfiancarlo, ma non è questo il caso. Si tratta semplicemente di restare fedeli a una specie di dovere. È pericoloso scrivere questo genere di cose perché in Italia c’è qualche milione di persone persuasa di avere appunto questo dovere (o missione?).

Però diciamo che c’è del talento. Poi succede qualcosa: un dolore o una gioia. Del tutto misteriosamente, tutto quello che verrà dopo (se si tratta di narrativa), bene o male parlerà di quell’esperienza e a quell’esperienza. Forse la storia che si scrive (racconto o romanzo che sia), è prima di tutto una conversazione che si intrattiene tra sé stessi, e quell’altro sé stesso imprigionato in quegli anni distanti. Forse si parla a quel dolore, o gioia, e nel secondo caso lo si fa perché non si spenga, nel primo affinché si cheti.

Affinché morda di meno.
Ma queste sono faccende personali, e si dovrebbe evitare di essere troppo curiosi.
C’è una certa fedeltà a temi, o meglio: a un’atmosfera. Un ambiente preciso che cambia veste, colore, collocazione, ma a ben guardare resta sempre lì. Dietro le quinte magari.

Charles Dickens. Qui è facile vero, individuare cosa c’è stato in questo scrittore di tanto potente da accompagnarlo fino alla fine dei suoi giorni? Il trauma di un’infanzia terribile. Però c’è stata, credo, una specie di evoluzione. Ai suoi lettori, Dickens offriva bambini che frignavano (era lui che frignava, in prigione a causa dei debiti del padre).

Però i suoi romanzi più riusciti mettono in scena il crimine del singolo, e la violenza pubblica. Forse quel dolore, gli ha spalancato le porte sul resto, e buona parte della sua produzione offrirà bimbi sfortunati, e personaggi gotici e persino grotteschi. E memorabili.
Più o meno la stessa storia, giusto?

Però leggere “Casa desolata” non impedisce di avvicinarsi a “Il nostro comune amico”. Eppure, che ci sarà mai di così differente? Di tanto nuovo? Tutto deve essere rinnovato per riuscire a raccontare la solita storia, ma nel modo migliore.
Come si fa? Difficile da rispondere. Per questo pochi sono davvero bravi. La maggior parte, scribacchia…


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