"E' vero che i numeri non finiscono mai?", mi ha domandato l'altro giorno Dodokko, confermando subito dopo: "Sono come i giorni, anche loro non finiscono mai". Ho dovuto smentirlo, andando anche contro la matematica: "I numeri finiscono quando non c'è più qualcuno che sa o può contarli", gli ho detto. Questa risposta, invece, non glie l'ho fornita: "Anche i giorni terminano, ogni singolo giorno. E termineranno soprattutto quando un giorno non ci sarà più nessuno che potrà passare la notte senza dormire soltanto per vedere, da una finestra, sorgere il sole". Non ho raccontato a mio figlio la banalità secondo cui esistono giorni finiti, ma che possono durare un'eternità, né la storia che recita che i ricordi ci permettono di prolungare nel tempo un momento già passato. Nemmeno gli ho accennato dell'illusione che ci danno certe aspettative, gli istanti che non sono ancora giunti ma che già siamo capaci di gustare: sono cose che scoprirà da solo e a cui potrà credere, se vorrà farlo. Per ora gli lascio queste parole, che ancora non sa leggere né capire: "Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nella nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua [...]". "Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, Feltrinelli 2005, pp, 34-35.
"E' vero che i numeri non finiscono mai?", mi ha domandato l'altro giorno Dodokko, confermando subito dopo: "Sono come i giorni, anche loro non finiscono mai". Ho dovuto smentirlo, andando anche contro la matematica: "I numeri finiscono quando non c'è più qualcuno che sa o può contarli", gli ho detto. Questa risposta, invece, non glie l'ho fornita: "Anche i giorni terminano, ogni singolo giorno. E termineranno soprattutto quando un giorno non ci sarà più nessuno che potrà passare la notte senza dormire soltanto per vedere, da una finestra, sorgere il sole". Non ho raccontato a mio figlio la banalità secondo cui esistono giorni finiti, ma che possono durare un'eternità, né la storia che recita che i ricordi ci permettono di prolungare nel tempo un momento già passato. Nemmeno gli ho accennato dell'illusione che ci danno certe aspettative, gli istanti che non sono ancora giunti ma che già siamo capaci di gustare: sono cose che scoprirà da solo e a cui potrà credere, se vorrà farlo. Per ora gli lascio queste parole, che ancora non sa leggere né capire: "Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nella nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua [...]". "Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle". Fernando Pessoa, Il libro dell'inquietudine, Feltrinelli 2005, pp, 34-35.