È evidentemente troppo tardi per una segnalazione della mostra Vi är romer [Siamo rom] ché − oltre a essere in chiusura − è allestita nella Kulturhuset [Casa della Cultura] di Borås, una cittadina della Svezia centro-occidentale in cui è assai dubbio che qualcuno possa mai capitare, a Febbraio; peccato, perché la città offre molto sotto il profilo artistico-culturale. Ma lo faccio comunque, non solo perché è la più avvincente mostra non artistica che abbia mai visto (e infatti ha vinto dei premi) ma soprattutto perché ciò che ne resterà, dopo il 29 febbraio, è un valore non legato al tempo; e di questo bisogna parlare.Il progetto è stato inizialmente prodotto dal Museo Cittadino di Göteborg, con integrazioni a livello locale, su iniziativa degli attivisti rom Bagir Kwiek e Tereza Eriksson, in collaborazione con le giornaliste Sofia Hultqvist e Cecilia Köljing, con la fotografa Maja-Kristin Nylander. Una sfilza di nomi che non pubblico per mero dovere giornalistico, ma per il piacere di riscontrare una massiccia presenza femminile in questo poetico lavoro, sensibilità tangibile.
Ho scoperto moltissimo su questo popolo originario dall’India settentrionale, che ha alcune comunanze con quello italiano: al di là di un’identità condivisa poggiata su tradizioni molto antiche (e tramandate per via orale) che gli permette di “riconoscersi” come tale, le differenze tra un gruppo e l’altro sono enormi. Differenze religiose (ci sono cristiani e musulmani), linguistiche (lingue e/o dialetti diversi che talvolta non sono comprensibili tra loro), e anche di stili di vita.
Ci sono i rom visibili, quelli che spesso abitano nei campi (“bombe sociali”, come le descrive qui Marco Rovelli) e vivono di mendicità, raccolta di rottami ed espedienti che vanno anche oltre la legalità, fino ad arrivare al Clan dei Casamonica, che proviene da una realtà stanziale molto più consolidata. È una questione reale sulla quale spesso si articola uno scontro sociale usato in modo politico, che prolifera dove c’è maggiore sofferenza economica. Questi rom che noi percepiamo nel migliore dei casi come dei “disadattati” rappresentano una parte di questo popolo.
Quello che noi spesso ignoriamo, ma che Vi är romer mette in evidenza, è che una grandissima parte di questa popolazione pur senza rinnegare le proprie origini e tradizioni desidera poter condurre una vita all’interno di un contesto societario occidentale, nel quale vivono e sono chiamati a operare in quanto cittadini del paese di residenza. Ci sono oltre 12 milioni di rom nel mondo, nonostante la ferocissima persecuzione nazista che ne sterminò circa mezzo milione durante l’olocausto – il Porajmos [Il Grande Divoramento] in lingua rom. Un popolo più numeroso di quello che abita oggi la Grecia; e molti di loro nascondono completamente la loro etnia d’origine, per non essere discriminati. Ne conosciamo tantissimi, senza avere idea che siano rom, ci conviviamo ogni giorno senza problemi, fino al momento in cui non veniamo a sapere che sono rom. Allora diventano ladri e orchi, pericolosi. Per questo molti di loro non raccontano mai la loro origine, si presentano come “balcanici”, e vivono in un segreto di paura e persino vergogna, che a volte (forse per fortuna) si carica di un’energia rivendicativa, di un bisogno di riscatto. Si incontrano molti giovani rom in questa mostra, e si vorrebbe abbracciarli. Ragazze e ragazzi che “ce l’hanno fatta”, che hanno assaporato l’accettazione, che vogliono essere liberi di essere chi sono, quello che desiderano, sognano, sanno fare, possono realizzare.
È questa la forza delle immagini ma soprattutto delle interviste in esposizione: la ragazza due volte campione di karate per la squadra nazionale svedese che è anche attrice, attivista, studentessa universitaria; o il ragazzo che fa lo chef per alti ristoranti, è uno dei migliori ballerini svedesi di salsa, e un dotato musicista. Fatica doppia, strada in salita quasi verticale per tutti, anche per i ragazzi che vorrebbero allenarsi in una qualsiasi squadra di pallone e finire al Real Madrid, e invece giocano tra di loro, con l’unica possibilità di diventare così mostruosamente bravi da non poter essere più ignorati. Questa la realtà, questa la condanna, il freddo, l’indifferenza, l’ostilità.
E come i nostri compatrioti emigrati negli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso, sono erbe da fascio, pagando ognuno per la propria esistenza con cifre da rappresaglia nazista. Pensiamo a questo. Pensiamo a dare una possibilità di fiducia dentro di noi, combattiamo i nostri pregiudizi, che sono poi le nostre paure. Non solo ci guadagna chi ha bisogno oggi di un futuro, ma soprattutto noi. Il tempo è prezioso, non aspettiamo che passino decenni prima che questo popolo possa vivere con dignità e rispetto, come hanno atteso i nostri connazionali emigrati; troppo odio ma soprattutto troppo amore sprecati.
La poesia e lo spirito