Più nel dettaglio, l’italiano ritiene che il 30% della popolazione sia composta da immigrati (in realtà è il 7%) e che il 20% di questi siano musulmani (sono circa il 4%).
Tale approccio disfunzionale si mostra anche nell’analisi del problema sbarchi; se la maggior parte degli italiani è infatti convinta di sopportare il peso più elevato degli esodi dall’Africa, questa “misperception ” è smentita, di nuovo, dall’elemento statistico e documentale. In Europa il primo Paese per numero di rifugiati è infatti la Germania (200.000), poi Francia (238.000), Regno Unito (126.000) e Svezia (114.000). In Italia i rifugiati accolti sono 76.000, circa uno ogni 1000 abitanti.
Ancora, i primi Paesi al mondo per numero di rifugiati sono i Paesi meno sviluppati, collocati nelle zone più “calde” del pianeta: Pakistan (1,6 milioni), Libano (1,1 milioni), Iran (982.000), Turchia (824.000) e Giordania 736.000). Seguono i Paesi della fascia africana: Etiopia (587.000), Kenya (537.000), Ciad (454.000) e Uganda (358.000).
L’Europa se ne lava le mani?
Si tratta di un altro luogo comune, tanto ingannevole ed infondato quanto diffuso e pericoloso. In base agli accordi di Dublino (siglati, per l’Italia, dal governo Berlusconi III), spetta infatti ai Paesi di prima accoglienza la gestione degli stranieri, così da responsabilizzare ogni singolo Stato sul management dei flussi e rafforzare la sicurezza obbligando alle identificazioni. Sebbene l’approccio europeo sia senza tema di smentita lacunoso e dunque migliorabile, la liquidazione della condotta dei massimi apparati continentali come prova di inefficienza, egoismo nazionalistico ed incapacità sarà pertanto da rigettare.
False percezioni: perché?
Uno dei decani del giornalismo statunitense, nonché celebre e celebrato “muckracker”, Lincoln Steffens, faceva notare come avrebbe potuto creare un’emergenza sociale, una psicosi collettiva, partendo dai normali fatti di cronaca che avvenivano nel quotidiano, amplificandoli attraverso il mezzo mediatico e la sua retorica. Questo perché il cronista è il “medium” tra le masse e ciò che succede e per questo le masse sviluppano nei suoi confronti un rapporto di tipo fideistico. Da tale assunto di base si comprende la delicatezza del ruolo di chi fa informazione; una notizia manomessa, alterata o , peggio ancora, falsa, sporca la percezione che il cittadino ha di sé stesso, del collettivo e di chi lo governa, orientandolo di conseguenza. Il crisismo demolitivo e l’allarmismo che sta delineando il lavoro della stampa nazionale si muove secondo questa nefasta traiettoria. I motivi sono: il dettato politico (quasi tutte le testate hanno una proprietà partitica) ed il bisogno di fare “cassetta”, bisogno che soltanto le notizie ad altissimo impatto emotivo possono garantire, secondo il principio breueriano-freudianio della catarsi (il lettore scarica ed appaga i propri impulsi più violenti nell’acquisizione di una notizia di importante urto adrenalinico ). Si viene meno, però, ai dettami dell’etica deontologica (mirabilmente illustrati e condensati nello “Statement of Principles” del 1975 ) nuocendo alla società, corrodendone le basi e, quel che è peggio, la fiducia, ammanettandola ad una cultura del disfattismo che mostra i contorni del vicolo cieco.