Siamo io e te, papà

Creato il 11 maggio 2012 da Marina Viola @marinaviola

Come tutte le cose che poi rimangono, l’idea è nata da una seduta in uno studio di terapia di una palazzina assolutamente anonima vicino a Cambridge. Nel Massachusetts. Negli States.Lei ascoltava quello che avevo da dire del mio passato ingombrante, sfociato in un presente diverso e difficile, e aspettava un momento mio di pausa per dirmi la fatidica frase: guarda al futuro, basta con questo passato. Se proprio lo vuoi sviscerare, scrivi, visto che ti piace così tanto.L’ho presa come sfida, e ho chiamato il Giorgio Terruzzi, per dirgli, insegnami a scrivere un libro, adesso, al telefono. Lui, con la sua pazienza e la sua parlata che da far ridere diventa seria da una parola all’altra, ha cominciato a aiutarmi.E così, ben due anni fa, mi sono seduta alla scrivania che mio padre mi aveva regalato per un compleanno anni e anni fa, e ho cominciato a scrivere. Scrivevo, piangevo e mandavo a Giorgio, che mi diceva, dirigeva, commentava, insegnava. A volte anche lui, ha ammesso, piangeva. Continua, vai così, tira fuori, diceva.Insomma, il tutto è finito un sei mesi fa: c’ho buttato dentro mio padre, tanstissimo. E poi la mia decisione impulsiva di seguire Dan in America mollando tutto il bendiddio che avevo, ma anche quello che non avrei mai più avuto. C’ho buttato dentro anche il percorso iniziato da una telefonata della pediatra di Luca che diceva, quasi scusandosi, che l’esito dell’esame del sangue del mio bimbo di quattro mesi era finalmente arrivato: Signora, mi dice, suo figlio ha la sindrome di Down, ma è strana. Cerchi sull’Internet, che io non ne so niente. Have a nice weekend.Per ognuno di questi tre episodi ho descritto come se guardassi a una fotografia quello che era successo, e quello che io percepivo ogni volta che mi dicevano, wow, Beppe Viola, senza rendersi conto che per me era il mio papà, che avrebbe dovuto firmare il diario, gli avvisi, che avrebbe dovuto ascoltarmi quando avevo bisogno. Ogni volta che un americano mi dicevano, wow, Milano, fashon city, senza rendersi conto che io amo il mercato del Mercoledì, e che invece per me Milano è casa, con tutti i suoi annessi e connessi. Ogni volta che mi dicevano wow, sindrome di Down, autismo, ma come fai?, senza rendersi conto che anche io non avrei voluto fare, anche io avrei invece voluto una roba diversa, ma che invece faccio ogni santo giorno, e stranamente faccio con piacere e soddisfazione.Insomma, un lavorone.Poi mando, soprattutto alle sorelle, che rimangono colpite dal mio tono senza filtro. Si scandalizzano un poco per aver condiviso alcuni episodi che invece sono sempre rimasti non detti neanche tra di noi, per pudore, per paura di trovarci dentro degli altri motivi per essere tristi.Poi anche loro, fiere, lo mandano in giro. Serena lo da al suo amico Alberto Schiavone, un giovane e bravissimo scrittore torinese, amico suo. Che lo da a un amico che lavora in editoria. La settimana scorsa avevo la febbre, la congiuntivite, la tosse e il raffreddore. Mi sentivo giù e dunque triste, sola e abbandonata. Parlavo che sembrava avessi due carote su per le narici, e l’occhio rosso e gonfio mi faceva avere un’espressione di un boxer sconfitto in malomodo. Squilla il telefono. Sono Giuseppe, lavoro per una grande casa editrice. Bello, il libro, anzi, dice lui, i libri, che secondo me ne hai scritti due: uno su tuo papà e uno su di te. Vuoi lavorare con me? Con noi? Mi piacerebbe essere il tuo editor. Così ha detto: il tuo editor.Per cui, via per questa nuova esperienza, nata anni fa da una seduta assolutamente inutile nell'insulso studio di una psicologa annoiata del mio passato, e per nulla colpita dal mio presente. Sono ovviamente emozionata: mi sembra una roba più grande di me, anche se per la prima volta nella vita mi sento di avere un compito che sono capace di fare.Oggi invece mentre mi mettevo il collirio pensavo, cazzo, non ho chiesto a papà se va bene che faccio quello che faceva lui. Delle quattro figlie brillanti che lui e mia mamma hanno avuto, sembra essere capitata a me la sorte di seguire la sua carriera, o almeno provarci. Come non mai mi è mancato il numero di telefono da chiamare per potergli parlare, chiedergli consiglio, aiuto. Perché nel libro siamo io e lui, o meglio il papà che propongo è solo mio. Quello di Anna è sicuramente diverso, solo suo, e così per Renata, e ancora diverso per Serena. Ognuna di noi ha dentro il proprio papà. E questo mio rapporto intimo con mio papà, coi suoi due ruoli di padre e di Beppe Viola adesso lo rendo pubblico.La responsabilità di fare un buon lavoro, di non in qualche modo disturbare il suo lavoro fatto quasi mezzo secolo fa, che è lì, intaccato da allora, è enorme. Per la prima volta in trent’anni verrà pubblicata una cosa firmata Viola, senza neanche che lui lo rilegga per sapere se va bene.Poso il collirio e mi fiondo in camera da letto. Lì ho due cose che uso come interlocutori tra me e un’improbabile presenza di papà dall’altra parte del muro: una lettera che mi aveva scritto anni fa che inizia con “Mia piccola e dolce Marina”, così mi chiamava lui, e continua con parole di tenerezza che solo un papà pieno di emozione può scrivere in risposta a una delle lettere che gli avevo lasciato sul cuscino. Poi c’è una sua foto, in bianco e nero. È un primo piano del suo profilo. Si intravede la spalla nuda, per cui immagino fossimo in spiaggia a Bordighera. Lui guarda in basso, e ha un’espressione tra il sorriso e il concentrato. Ho sempre pensato che sia l’espressione che avrebbe se gli parlassi di robe importanti. Mi fiondo davanti a questo mio altarino e dico: “va bene? Chiedo perché qui siamo io e te e basta. Vado avanti? Mi aiuti o fai quello che non risponde al telefono? Altro che piccola e dolce Marina, papà. ‘Sta volta ci vado giù dura. “ La sua espresisone quando la fisso per tanto, sembra quasi muoversi. Invece no. Magari invece poi è anche fiero.

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