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Siamo tutti prigionieri dei nostri ricordi. Un viaggio nella memoria di Virginia Woolf

Creato il 14 settembre 2013 da Sulromanzo

Autore: Beatrice Mantovan

[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]

Virginia Woolf
Complici le tecniche adoperate da James Joyce in Irlanda, Marcel Proust in Francia e Italo Svevo in Italia, Virginia Woolf ha avuto il grande merito di dissolvere le strutture tradizionali del romanzo, concentrandosi sulla vita interiore dei personaggi, a discapito della trama e degli eventi esterni. Attraverso l’uso del flusso di coscienza (stream of consciousness) la scrittrice inglese ha eliminato la forma comune del dialogo diretto, facendo ricorso al monologo interiore indiretto, in cui il narratore parla al lettore – con l’ausilio della terza persona –, confondendosi col personaggio che parla a se stesso. Woolf non rinnega la realtà, ma la sottopone a un processo d’interiorizzazione. La narrazione procede attraverso continui spostamenti in avanti e all’indietro nel tempo e si sbriciola in associazioni di idee che si dipanano su una trama esile. Tutto si concentra sui processi mentali dei personaggi: è il tempo della coscienza a essere in primo piano. Il pensiero vaga liberamente tra i ricordi, e le riflessioni ostacolano il procedere regolare dell’azione. Non vi è mai obiettività nel ricordo. I ricordi sono come li vogliamo ricordare. La memoria è una lente di ingrandimento che sfoca, rimpicciolisce, ridisegna il nostro vissuto. Allo stesso tempo, però, è il ricordo che ci restituisce il nostro percorso, la nostra storia e la misura del nostro agire. Il flusso di coscienza dà sfogo al libero arbitrio della memoria, al suo procedere a tentoni, per associazioni di idee. Non è la tirannide dell’io né l’autoreferenzialità dell’ego. È, piuttosto, il tentativo di rendere, attraverso la narrazione, l’incedere psichico dei personaggi, e la lingua rispecchia, in un mimetismo ardito che talora abolisce la sintassi e la punteggiatura, l’urgenza psicologica di ciascun personaggio, in una continua osmosi tra psiche e linguaggio. I registri linguistici variano e, in alcuni casi, si presentano particolarmente raffinati e ricercati, financo lirici, ricchi di similitudini, metafore, assonanze e allitterazioni.

 

Come l’Ulisse di Joyce è la storia di una giornata di giugno del 1904, così La signora Dalloway di Virginia Woolf è la storia di un mercoledì di giugno del 1923. In questo romanzo, pubblicato nel 1925, Woolf narra la giornata di Clarissa Dalloway, che la sera deve dare una festa. Siamo a Londra e la guerra è finita da pochi anni. È una calda giornata di quasi estate. Racchiuso, quindi, nello spazio di una giornata e di una città, il libro è tutto giocato su una compenetrazione incessante di realtà esteriore e moti interiori dell’animo, di presente e di passato. C’è la presenza ben precisa della  città: una Londra dai connotati tutti visibili e riconoscibili, nomi e suoni di vie, spazi nei parchi, interni di case e di negozi, il frastuono delle macchine e gli ingorghi del traffico.

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