« Come mai, dunque, non nasce un brigantaggio politico in Sicilia nonostante l'aperto disinganno succeduto, nello spirito pubblico, agli entusiasmi suscitati da Garibaldi? La ragione principale crediamo sia da ricercare nel «sicilianismo», cioè in quel complesso di sentimenti e di risentimenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli avevano più o meno efficacemente contrastato ogni attentato ai privilegi del Regno di Sicilia e, nell'ultimo periodo, la politica unitaria (di unione al Regno di Napoli) dei Borboni.
Elemento importante del «sicilianismo» era l'istituto dell'Apostolica Legazia, per cui lo Stato siciliano deteneva delega di poteri ecclesiastici e religiosi: e ne discendeva il carattere non diciamo progressista, ma in un certo modo laicista del clero (e più di una memoria registra la sorpresa dei garibaldini a trovarsi accanto preti e frati). E dentro il «sicilianismo» si agitava la formazione di una categoria sociale, se non di una classe, che approssimativamente si può dire borghese, borghese-mafiosa più esattamente, di cui è campione il Sedara del Gattopardo: la quale categoria vedeva nel parlamentarismo, o almeno nella macchina elettorale, quelle chances che lo Stato dei Borboni non offriva e non prometteva.
In forza del «sicilianismo», insomma, le frange legittimiste e sanfediste si riducevano in Sicilia ai pochi funzionari e manutengoli del regime borbonico, e ai più maldestri e ingenui per di più. A Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie, c'erano invece un'aristocrazia e una burocrazia cristallizzate intorno alla corte borbonica; un clero direttamente legato alla Curia romana; una classe borghese (sempre approssimativamente parlando) meno pronta e spregiudicata di quella borghese-mafiosa, la quale aveva capito che tutto stava per cambiare appunto perché niente cambiasse e che l'entrare nel Regno d'Italia, abdicando a certi privilegi autonomistici, avrebbe accelerato il passaggio di consegne dai gattopardi agli sciacalli su una realtà destinata per molti anni ancora alla immobilità.
In conclusione: identificando il «sicilianismo» in un corpus piuttosto confuso e contraddittorio di privilegi nazionali e di classe (e compresi tra gli uni e gli altri quelli dell'Apostolica Legazia), di tradizioni, di costumi, di abitudini ritenuti perfetti e superiori (e siamo nella dimensione della follia siciliana, che tuttora esiste ed esercita un suo fascino anche sui non siciliani), non è del tutto azzardato affermare che la mafia ne fosse il risultato più conseguente al momento dell'Unità d'Italia (e oltre) e che addirittura riflettesse echi di una rivoluzione borghese limitata alla proprietà fondiaria; e da ciò la sua funzione in senso nazionale-unitario e il venir meno di quelle condizioni che davano luogo al brigantaggio nelle province napoletane. Giustamente dice Hobsbawm: « La nuova classe dominante dell'economia agricola siciliana, i gabellotti ed i loro collaboratori cittadini, scoprirono un modus vivendi con il capitalismo settentrionale ». Una classe di uguale formazione, che non aveva alcuna ragione di temere «la trasformazione del Sud in una colonia agricola del Nord commerciale e industriale», una classe così pronta e spregiudicata e refrattaria ai motivi ideali della legittimità e della fede, non esisteva nel napoletano: per cui i briganti continuarono in Sicilia a fare i briganti, e portarono lo Stato italiano a patteggiare l'ordine pubblico con la mafia stessa.
Queste considerazioni valgono, crediamo, a spiegare come le vaghe aspirazioni sociali riscontrabili nel brigantaggio diciamo napoletano, o soltanto in alcuni capi, si agitassero dentro il contesto di una fazione molto più arretrata e reazionaria (oltre che effettualmente inutile in quanto di causa persa) della mafia siciliana: e questa sarà la caratteristica di ogni brigantaggio politico, fino a Salvatore Giuliano (il quale, politicamente sollecitato dalla mafia, fu dalla stessa mafia spento quando essa trovò assestamento nella democrazia post-fascista). »
- Leonardo Sciascia - in "La corda pazza" - 1970 -